martedì 12 maggio 2020
Sono storie di servizio ai pazienti, di fedeltà agli anziani, di accettazione del rischio, di accoglienza del dolore altrui fino a farlo proprio. Il Papa li ha definiti eroi di una «vocazione»
Bruno, Elena, Concetta, Edi, Mohamed... I 39 infermieri uccisi dal Covid
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Non hanno mai lasciato solo nessuno, pagando con la vita la dedizione ai pazienti che gli erano affidati. Sono i 39 infermieri morti di Covid dall’inizio della pandemia (4 di loro non hanno retto al dramma che stavano fronteggiando e si sono tolti la vita). Agli infermieri ha rivolto un pensiero il Papa all’inizio della Messa a Santa Marta nella giornata internazionale che gli è dedicata il 12 maggio: «Preghiamo oggi per gli infermieri e le infermiere – ha detto Francesco -, uomini, donne, ragazzi e ragazze che svolgono questa professione, che è più di una professione, è una vocazione, una dedizione. Che il Signore li benedica. In questo tempo della pandemia hanno dato esempio di eroicità e alcuni hanno dato la vita». Hanno condiviso la sorte dei medici - 163 dei quali sinora hanno perso la vita dopo essere stati infettati – morendo in un terzo dei casi tra Rsa e assistenza domiciliare, e quindi per non abbandonare anziani e disabili. Le loro storie mostrano un altro volto di questa emergenza che non va dimenticato.

L’ultimo ad andarsene, il 9 maggio, è stato Bruno Gelfusa, ciociaro di Pontecorvo, che alla professione aveva aggiunto una passione per l’impegno pubblico con ruoli di dirigenza nell’Ordine degli infermieri. Di lui si ricorda la costante attenzione al prossimo che l’aveva spinto a diventare anche consigliere comunale.

Aveva solo 48 anni Daniela Bergamaschi, infermiera all’Ospedale Oglio Po di Casalmaggiore, nel Cremonese. Le foto la ritraggono con un sorriso aperto e accogliente, lo stesso che piangono i suoi colleghi nei messaggi dedicati a una «guerriera».

Lavorava nello stesso ospedale Elena Nitu Rodica, morta di Covid pochi giorni dopo. Romena, 40enne, da 15 anni in Italia, lavorava al reparto Dialisi dove probabilmente si è infettata. Viveva da sola, i genitori e il fratello in patria. La sua famiglia erano i colleghi, che ne parlano come di «una ragazza simpatica e allegra, sempre ligia al lavoro, che amava davvero: si dedicava anima e corpo ai suoi pazienti, non si fermava mai».

La tragica morte di Daniela Trezzi, 34 anni appena, infermiera in pediatria al San Gerardo di Monza, ha sconvolto colleghi e pazienti. Positiva al tampone, confinata in quarantena, non ha retto al peso psicologico e al timore – sembra – di poter avere contagiato qualcuno.

Una storia per alcuni aspetti simile a quella di Concetta Lotti, 62 anni, infermiera all’Ospedale Asilo Vittoria di Mortara, in Lomellina, aveva accusato i sintomi di quella che sembrava una banale influenza, ma lei con la sua esperienza aveva probabilmente capito di cosa si trattasse. Forse era per non correre il pericolo di poter infettare qualcuno che si era chiusa in casa, dove l’hanno trovata senza vita.

Alla vigilia di Pasqua il virus si è portato via Anna Poggi, genovese, che a pochi mesi ormai dalla pensione aveva scelto di prestare servizio sul fronte del reparto di medicina d’urgenza che nell’Ospedale Villa Scassi di Sampierdarena è stato riconvertito in avamposto Covid.

Annamaria Di Giacomo, 56 anni, napoletana, lavorava in Neuropsichiatria infantile all’ospedale Vanvitelli dopo aver operato al Cto. E’ spirata poco dopo la metà di aprile nel reparto rianimazione dell’Ospedale Monaldi dove pochi giorni prima era morta un’altra infermiera di 61 anni, che le cronache riportano solo con il nome di Serena. Due decessi che sembrano in fotocopia, e che somigliano a quello di Edi Maiavacchi, 61 anni, stimatissima infermiera dell’Ospedale Maggiore di Parma. Donna attivissima, madre e moglie affettuosa, di lei il direttore dell’ospedale ha detto che «ha trascorso tutta la sua carriera lavorativa nel mondo della sanità e al servizio del prossimo».

E’ proprio il servizio il tratto che unisce tutte queste biografie. Fedeltà alle “sue nonnine”, come le chiamava, l’aveva dichiarata Lidia Liotta, caposala nella Rsa Villa Serena di Predore, nella Bergamasca. 55 anni, diceva per sdrammatizzare che un comandante non abbandona mai la nave. Ha combattuto contro la malattia per un mese, arrendendosi poco dopo la metà di aprile.

Lucetta Amelotti, infermiera 64enne di Garlasco (Pavia), è morta poche ore prima del marito, Carlo, anche lui portato via dal Covid. Lavorava in un laboratorio di analisi e in alcune case di riposo.

Il 25 aprile dall’Abruzzo la notizia della scomparsa di Francesco Di Berardino, infermiere all’ospedale di Popoli. Il suo Ordine provinciale di Pescara ne ha parlato come di un uomo «affamato di conoscenza e sempre pronto a dare una mano, a essere vicino ai colleghi». Per quanto si tratti di una professione prevalentemente femminile (il 78% dei 391mila infermieri operativi in tutta Italia è composto da donne), il Covid ha colpito anche molti professionisti uomini. Portandosi via anche Luciano Mazza, 65enne infermiere al Policlinico San Marco di Zingonia, vicino a Bergamo. O Marco Offredi, genovese di Cornigliano, che aveva lasciato l’impegno negli ospedali per dedicarsi nella libera professione all’assistenza agli anziani. Il virus lo attendeva in un centro specializzato, nel quartiere di Pontedecimo. «Un uomo di gran cuore, buono, che sapeva bene come prendersi cura dei pazienti», e le foto sui social che mostrano un uomo cordiale e appassionato confermano questo ritratto dei colleghi. Scendiamo a sud e incontriamo il sacrificio di Roberto Maraniello, napoletano, 57 anni, in servizio al Cardarelli, impegnato nel sindacato. Il suo collega e coetaneo Salvatore Calabrese è morto all’Ospedale Rummo di Benevento per il progredire inesorabile della malattia contratta sul lavoro. Era tunisino Mohamed Ayachi Ouali, 51 anni, che lavorava in una Rsa di Legnano prendendosi cura dei nostri anziani. Ha lasciato la moglie e 4 figli.

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