lunedì 10 marzo 2014
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Ancora c'è chi ti racconta che qui «si sentiva il profumo della campagna, dell'erba appena tagliata». Di storie appartenute a gente piccola e semplice. Quella gente che quando si trovava in mezzo alle cose da fare, le faceva. Senza pensarci su. Senza rimandare a domani. Soprattutto, senza dimenticare le promesse. Se ne facevano vanto e onore, nel darsi una mano. Come quando hanno tirato su la nuova parrocchia di San Barnaba. Erano i giorni bui della Seconda guerra mondiale. Radunata la meglio gioventù del quartiere, tutti a mettere mattoni, e per ultima la croce. E salvarsi dalla deportazione in Germania. Sono gli anziani che raccontano, i nati in questo quartiere, quando era ancora solo un borgo. Come ultimi pellerossa, sopravvivono al passato che non c'è più e fanno del loro ricordo opera di riflessione: «Quello che accade alla terra accade anche ai figli della terra». Qui, la terra è stata trasfigurata in tanto cemento e pareti. Palazzi tirati su fin quasi a toccare la luna. Alloggi popolari, prefabbricati e grigi, per dare spazio alla Grande epopea migratoria su Milano. Anziani oggi che se ne vanno via di schiena curva, carica di memorie; ieri bambini con i pantaloncini corti, rammendati cento volte, e i ginocchi sbucciati, quando si tuffavano nelle acque del Lambro dove ci gettavano lenza e amo. E attorno a quel piccolo mondo c'erano solo una manciata di case di mattoni rossi, la Cartiera che dava lavoro ai padri, e cascine sparpagliate qua e là. Le bambine al grande fiume ci andavano accompagnando le madri che ci portavano i panni da lavare. Si viveva come una grande famiglia, raccontano, e la domenica, dopo la messa, tra adolescenti i primi amori sbocciavano sul sagrato della piccola chiesa di San Barnaba. Quella originale che non c'è più. Gente che, allora, viveva alla maniera di un seme, paziente e operoso, senza sapere il significato moderno di parole come solitudine o frenesia, e adesso che con gli occhi stanchi della vecchiaia guardano quel loro fiume Lambro, scrigno di memorie, che gorgoglia nel tanfo, che scorre malato e sporco, con il suo strascicare di rifiuti, ratti e nutrie giganti, ti ricordano di quante gratuite promesse hanno ricevuto, ma mai approdate in questo groviglio di palazzi, dentro a giardinetti ancora freddi d'inverno, tristi di pioggia. Uno più uno meno, senza contare tutti gli altri qua e là sparsi, e sono tanti, cinquanta parallelepipedi, svettanti dieci piani, fanno l'impronta di cemento armato del quartiere più meridionale di Milano.

Quel "grato-soglio", quella terra "buona", dicono, che accoglieva i viandanti che da sud entravano nella città in epoca romana. Al Gratosoglio le case color bianco sporco non hanno cortile, non c'è una piazza. Nemmeno un bancomat, che lo devi andare a cercare più a nord, dove, è la gente di qui che te lo spiega, «è più sicuro prelevare». Qui i muri delle case parlano, gridano la ribellione, graffiano la denuncia, rilanciano il disagio dell'individuo. Ti spiegano i perché di un tessuto sociale ferito dal degrado, al solito lasciato nella mani della laboriosa buona volontà del solito "qualcuno ci penserà". I muri rivelano, i muri raccontano, sui muri si possono raccoglie le storie e i desideri delle persone. E questi alti palazzi che incombono come giganti muti sulla parrocchia "Maria madre della Chiesa", trasudano di queste incisioni a spray. Come quello slogan di protesta studentesca anarchica, sbiadito dalla pioggia, che ancora sopravvive dai lontanissimi anni Settanta del secolo passato, su una parete di via Saponaro al 36. Un grido primitivo, rabbioso, e che mai spugna ha tentato di rimuovere: indomita resistenza o solo evidente conferma di un cronico stato d' abbandono?: "Questa è la vostra cultura. Questa è la vita della vostra Milano città europea. Tognoli b... Cdz 15 infami ". E poi quel disegno raggelante, per chi ricorda quegli anni: una siringa. Cupo sinonimo dell'eroina. Pozzo infernale, trappola mortale per tanti ragazzi e ragazze "figli di questa terra". Sotto questa scritta, prova a fermarti e a guardare questi palazzi, punta i piedi sotto queste finestre tutte uguali e alza il naso al cielo, meglio se è grigio, come il colore di questi "nidi" dell'uomo e dei suoi cuccioli, tutti questi sedici piani di cemento ti mostreranno le rughe di una "banlieue", estremo sobborgo pensato male, cresciuto male: gioco di costruzioni, grande dormitorio. Anche nei box, divenuti tane oscure per chi viene da lontano e casa non ce l'ha. «Il Gratosoglio nuovo, come era stato ben disegnato, così è stato anche ben abbandonato. Gestito male. Dopo lunghe battaglie oggi non mancano i servizi, le scuole o i collegamenti con la città. Manca l'aggregazione. Negozi non ce ne sono più. Gli spazi che erano stati progettati per la panetteria, fruttivendolo, parrucchiere, banca, oggi sono loculi vuoti. L' invecchiamento della popolazione, la grande distribuzione che avanza e la crisi che stiamo subendo, hanno spostato le attenzioni sulla barricata opposta ai bisogni della persona – osserva don Marcellino Brivio, parroco del Gratosoglio . Eppure, l'aspetto paradossale, è che in questi santuari di cemento poi nascono iniziative vive, di solidarietà. Realtà di volontariato. Un centro per anziani, per i giovani e per il doposcuola. Certo che per capire dove siamo, basta andare in via Saponaro, ci sono le torri e poi il niente. Quartiere dormitorio, perché il lavoro è stato pensato altrove, anche se colpa la disoccupazione vediamo molta più gente in giro. Dal punto di vista delle potenzialità non sarei troppo negativo, ma quando vedi che il quartiere comincia a invecchiare e i giovani non hanno un lavoro o si sposano e qui non trovano casa perché non hanno i requisiti richiesti per l'edilizia popolare, annoso problema dei criteri di assegnazione, e il cuore della Città è lontano, forse non facciamo che mettere insieme quel mix di precarietà e differenze culturali che innescano qualche problema di rinnovata socialità».  Qui c'era il vialetto con i filari di pioppi, la il Lambro. Qualcuno ricorda anche di un vecchio mulino e di un lontano profumo di pane contadino, laggiù, eccoli, ci sono ancora i campi coltivati a granoturco e un trattore. Vola una cicogna bianca. Poi però, un giorno, uno strano viandante, dalla bizzarra fantasia, si è presentato al Gratosoglio: «Cambiare, cambiare. Ribaltare, trasformare. Alzare alti muri, imprigionare il cielo, isolare i sogni». Come quella cosa neanche tanto vecchia, quella parete irregolare di mattonato grigio-tristezza, ma già lacera di strappi e sfregiata di abbandono, scarabocchiata di parole e ghirigori, che racchiude la fermata numero 11091 del tram, il capolinea del Gratosoglio. Quella cosa che di via Lelio Basso ne fa un budello, addossandosi a una deliziosa cascinetta milanese, memoria che profumava di prati. I muri parlano, i muri raccontano, e questo manufatto, che si apre sulle torri del Gratosoglio, monumento a qualcosa che non si sa, trasformato in lavagna per graffiti d'amore e di lotta, è pregiato di una incisione in latino: "A Mediolanum ogni cosa è degna di ammirazione, vi sono grandi ricchezze e numerose sono le case nobili...". A due passi, un gruppo di uomini, sbandati che parlano le lingue del mondo, con l'alito impastato di vino e birra, bivacca nel parco pubblico accanto ai giochi per bambini. Attendono il battito del "cuore" di Milano: che si aprano i cancelli della Fondazione fratelli di San Francesco. Il "solito" volontariato che garantisce la carità di una mensa e di un letto.

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