venerdì 3 novembre 2017
I trafficanti hanno moltiplicato i porti di imbarco lungo 800 chilometri che attraversano Libia e Tunisia così da impedire ai pattugliatori il controllo di uno specchio di mare troppo ampio
Gli scafisti libici allargano il fronte. Navi militari adesso in affanno
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Se è vero che il calo degli sbarchi è stato netto, ora che le Ong non presidiano più il canale di Sicilia, ad eccezione di Sos Mediterranée, il lavoro delle navi militari è tornato ai livelli della crisi. I trafficanti hanno moltiplicato i porti di imbarco lungo una striscia di mare ampia quasi 800 chilometri, costringendo le motovedette a massacranti tour de force tra Libia, Tunisia, Malta e Italia, fino a rendere inattuabili gli accordi con l’Italia. È accaduto due giorni fa quando gli stessi marinai della rediviva guardia costiera di Tripoli, anziché tornare sulla terraferma con il bottino di centinaia di profughi, sono stati costretti a consegnare il bastimento di vite umane alla Marina militare Italiana che, a sua volta, li ha poi affidati a Sos Mediterranee perché li conducesse in Sicilia. Alle fregate europee non è permesso attraccare in Libia e meno che mai potrebbero sbarcare lì dei migranti. Si tratterebbe di una violazione del diritto internazionale che vieta i rimpatri in Paesi non sicuri e che, come la Libia, non hanno firmato nessuna delle convenzioni sui diritti dell’uomo e la protezione umanitaria.

Uno sviluppo imprevedibile che pochi giorni fa era stato segnalato dal procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, recentemente non tenero con le organizzazioni non governative. Commentando un’inchiesta sul contrabbando di petrolio libico, il magistrato siciliano aveva riassunto la contromossa degli scafisti. «Quelli che avevano la base tra Sabratha, Zuara e Zawyia erano gli stessi che si occupavano del traffico di petrolio e di esseri umani. Abbiamo ragione di ritenere – aveva aggiunto – che il centro delle basi in cui sono riuniti questi migranti che vogliono arrivare in Italia si sia spostato, rispetto ai territori originari, più a est, tra Misurata e Tripoli».

In altre parole le partenze oggi sono dislocate lungo un tratto costiero che attraversa due Paesi ed è conteso da una dozzina di milizie. Quasi 800 chilometri da Sfax, in Tunisia, a Misurata, la città libica posta 200 chilometri a est di Tripoli. Per i mezzi di Eunavformed è nei fatti impossibile presidiare uno specchio di mare così ampio. Non è un caso che dal confine tra Libia e Tunisia continuino a partire barconi che approdano a Lampedusa senza venire intercettati né dalle motovedette tunisine, né da quelle libiche e neanche dalle navi militari europee. Tra scafisti e autorità internazionali si sta giocando una partita a scacchi che espone i migranti a rischi sempre maggiori, specialmente a causa della sopravvenuta assenza di navi di ricerca e soccorso delle organizzazioni non governative. Negli ultimi due giorni sono state soccorse oltre 1.200 persone in una decina di differenti operazioni di ricerca. Oggi pomeriggio 550 di loro arriveranno nel porto di Vibo Marina, in Calabria. Ma su questi interventi permane il black-out informativo.

Da settimane, infatti, scarseggiano le notizie ufficiali dall’Italia a proposito delle operazioni lungo le rotte dei migranti. Intanto non si fermano i combattimenti e solo nelle ultime ore si è appreso che, oltre al bombardamento aereo che ha provocato una ventina di vittime civili e attribuito alle forze del generale Haftar, nemico giurato del governo riconosciuto del premier Serraj, i corpi di 36 uomini giustiziati dopo essere stati torturati ad al-Abyar, un sobborgo di Bengasi sotto il controllo delle forze di Haftar. Sullo sfondo resta il negoziato all’Onu promosso da Paesi come Italia e Francia, che sulla Libia giocano una partita contrapposta. Roma e Parigi sono d’accordo nel sostenere il progetto, su cui dovrà esprimersi il consiglio di sicurezza dell’Onu, per inviare una forza anti-trafficanti. Una proposta che vede la contrarietà dell’amministrazione Usa di Donald Trump.

Il piano prevede stanziamenti di almeno 400 milioni di dollari solo per il primo anno, a sostegno delle operazioni che dovrebbero impegnare una forza multinazionale composta da militari di almeno cinque Paesi, per un totale di 5mila uomini. Proprio a New York, parlando all’organismo ristretto del Palazzo di Vetro, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, ha sollecitato i capi di Stato affinchè individuino soluzioni politiche ai diversi conflitti. «Il numero di persone costrette alla fuga in tutto il mondo sta raggiungendo i 66 milioni, nel 2009 erano 42 milioni», ha detto. «Questo numero comprende i 17,2 milioni di rifugiati sotto il mandato dell’Acnur, una crescita del 70% dal 2009». Poi l’alto commissario ha rimproverato i leader politici: «L’attenzione è incentrata sugli interessi a breve termine piuttosto che sulla stabilità collettiva a lungo termine. Siamo diventati incapaci di mediare la pace?».

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