giovedì 3 settembre 2020
A Taranto e provincia migliaia di lavoratori sono in “cassa” e vivono alla giornata da molti mesi I sacerdoti: in tanti si rivolgono a noi per pagare l’affitto e le spese
Gli operai alla sfida sopravvivenza

Ansa

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All’esterno delle portinerie dell’ex Ilva di Taranto si beve caffè corretto alla Sambuca, anche in piena estate. Il rito di ogni mattina serve ad addolcire o forse a dimenticare l’amaro di una situazione diventata insostenibile. Al futuro incerto dello stabilimento, oggi si somma il Covid- 19. Dai primi del mese è partita la cassa integrazione causa pandemia per un massimo di 8.152 addetti, il totale dei diretti, e dopo Genova anche a Taranto l’Inps ha avviato un’ispezione sulla gestione della 'cassa', mentre la Procura ligure indaga per truffa allo Stato. «Oggi più di 3mila lavoratori sono in 'cassa' Covid – racconta Franco Rizzo, coordinatore provinciale dell’Usb Taranto – e la logica di Arcelor Mittal è tirare al risparmio e scaricare i costi sullo Stato e sui lavoratori. Con la 'cassa' Covid a zero ore, un 'normalista', cioè un operaio che lavora dal lunedì al venerdì nel turno del mattino, stando sabato e domenica a casa, passa da 1.500 a 850 euro. In media 650 euro in meno.

Per il 'turnista', la mazzata è anche più grossa: il guadagno standard va da un minimo di 1.900 ad un massimo di 2.100 euro, ora gli arrivano 850-900 euro in busta paga. Perde 1.000 euro al mese. Per l’appalto va anche peggio. Le aziende non vengono pagate o le accontentano con degli anticipi sulle fatture. Di conseguenza sono a rischio chiusura, mentre agli operai toccano ritardi di settimane intere». Giovanni Casamassima lavora nel siderurgico da 16 anni. «Io sono nelle manutenzioni, come diretto. Con la cassa integrazione ordinaria, prendevo circa il 70% mentre adesso con il Covid mi arriva metà stipendio. Per un monoreddito con un mutuo e due bambini – confessa – è difficile vivere. Stiamo consumando quel po’ che avevamo da parte e ci stanno aiutando i familiari. Sopravviviamo. Non ci si può permettere nulla, né fare un programma. Si lavora una settimana al mese e il morale è a terra. Ci hanno fatto arrivare al limite delle forze».

Ci spostiamo a Grottaglie, venti chilometri da Taranto, dove c’è un’altra situazione che rischia di precipitare a causa della crisi economica dovuta alla pandemia. Leonardo Finmeccanica, l’azienda leader dell’aerospazio, qui ha 1.300 lavoratori diretti, circa 300 dell’indotto ed un solo cliente: Boeing-787, che vende alle compagnie aeree i mezzi per volare sulla tratte di medio e lungo raggio. Grottaglie fa parte della divisione aereo strutture, con Foggia, Nola e Pomigliano.

Dallo scorso 6 agosto e fino a fine mese lo stabilimento ionico ha chiuso completamente. E per tutto il 2020 sarà fermo ogni venerdì. Non era mai successo dal 2006, quando si insediarono. «L’azienda si sta strutturando con fermi e chiusure collettive – commenta, Roberto Clemente, componente di segreteria della locale Fiom Cgil e Rsu di Leonardo Grottaglie – per compensare il vuoto di lavoro ed evitare il taglio di personale». Con il Covid-19 si è ridotto il numero di consegne annuali di sezioni di fusoliere agli Stati Uniti, dove poi l’aereo viene completato. «L’azienda stessa prospetta una ripresa non prima del 2022 o 2023». L’età media dei lavoratori di Leonardo è 35 anni.


Dall’Ilva a Leonardo, è stato un agosto difficile per gli occupati delle grandi fabbriche. Le incognite sono destinate a moltiplicarsi, a partire dal settore degli appalti. Don Nino Borsci (Caritas): le famiglie che hanno bisogno di aiuti sono salite in pochi mesi da 4-5mila a quota 6.600 A sinistra: la protesta di alcuni operai nelle fabbriche del Mezzogiorno. Sopra e sotto: una giovane al lavoro in una bottega di Taranto, nei giorni del dopo-lockdown: in vendita per i turisti i souvenir in terracotta

Ci sono diverse famiglie con figli piccoli ed una vita davanti. «L’utenza da aiutare è cambiata in fretta. Siamo passati – spiega don Nino Borsci, direttore della Caritas della diocesi di Taranto – da 4-5mila famiglie ad almeno 6.600 nuclei, con gente che ha perso l’occupazione o non ha ricevuto la cassa integrazione e non aveva nulla da parte. In tanti operai si sono rivolti a noi per poter pagare l’affitto di casa, le utenze e le spese di ordinaria amministrazione. Per capire la portata del fenomeno, oltre al centro d’ascolto diocesano e alle mense cittadine aperte a pranzo e cena, abbiamo sollecitato tutte le Caritas parrocchiali perché aprissero i loro centri d’ascolto. Abbiamo provveduto alla distribuzione di buoni spesa, di medicine, attraverso le convenzioni con alcune farmacie e dando anche un contributo economico a qualche parrocchia, per esigenze particolari. Ed ancora continuiamo dove serve: ad esempio, di recente, con circensi e giostrai sparsi tra la periferia tarantina e la provincia».

Don Emanuele Ferro è parroco della Cattedrale di san Cataldo, cuore della Città vecchia, luogo a lungo emarginato e addirittura rinnegato per decenni dagli stessi tarantini, soprattutto negli anni ’90, con la guerra di mala. «La situazione sociale qui non è stata mai affrontata di petto. C’è un mondo sommerso – sottolinea don Emanuele – fatto di lavoro nero e spesso anche di spaccio di droga. Il Covid-19 ha influito su questa precarietà e debolezza. Voglio comunque sottolineare tanti segni di speranza che ci sono: il desiderio di rialzarsi e anche un’attenzione differente rispetto alla nostra isola. Non viviamo una situazione di abbandono globale. Credo però che ancora una volta si aggiri il problema. Tutto ciò che vuole ripartire dall’isola non parte dagli abitanti dell’isola, prescinde da loro. Il Covid ha danneggiato sensibilmente ciò che riguarda il comporto turistico, che timidamente prende forma ed acceso i riflettori su una realtà povera che ha bisogno di assistenza, adesso ancora di più». Antonio Lenti, insieme ad altri ragazzi della Città vecchia, con l’associazione Symbolum, che fa riferimento alla parrocchia, ha aperto una bottega di souvenir in terracotta, realizzati a mano da due giovani artisti dell’isola: Nicola Sammarco e Nunzia Marzella.

«Abbiamo inaugurato a novembre. A marzo con il lockdown sono saltati i piani. C’era di mezzo la Pasqua, la festa patronale, la primavera, con tanti turisti che cominciano ad affacciarsi nella nostra isola anche da Cina e Giappone. Tutto fermo, anche alla riapertura. La settimana di Ferragosto c’è stato un timido movimento ma non si può parlare di ripresa. Capiremo a fine anno come sta andando con le vendite, certo non è facile. L’anno scorso il museo diocesano, a due passi da noi, solo ad aprile registrava mille ingressi. Ora sono 3-4 al giorno».

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