lunedì 8 luglio 2013
​Sulle colline di Reggio, 600 persone suddivise in 43 gruppi del movimento “Familiaris consortio”, nato 50 anni fa dall’intuizione di un sacerdote, danno vita a una rete feconda che anima l’intera zona.
Beretta: «Parleremo a tutte le sensibilità perché il bene comune è trasversale»
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​La prima delle "piccole comunità", la comunità della Annunciazione, è nata nel 1959. Oggi i padri e le madri di quella famiglia pioniera del Movimento Familiaris Consortio hanno settant’anni. «L’intera vita insieme», dice la signora Vittoria, e ti parla del fondatore, don Pietro Margini, quell’uomo magro, piccolo, spinto da una formidabile passione a Cristo e alla Chiesa. Vittoria, che fu la prima bambina battezzata da don Pietro, è madre del sacerdote che oggi guida il Movimento, don Luca Ferrari. Quella prima comunità ha avuto venti figli, e quaranta nipoti: l’ultimo, sorride la signora Vittoria, «è nato questa notte, e si chiama Tommaso». Siamo sulle colline di Reggio Emilia, alla "Ecce Mater", la casa che di Familiaris Consortio è il cuore. Da qui in alto lo sguardo spazia sulla grande pianura. Nella cappella, dietro al tabernacolo, c’è una finestra spalancata su un orizzonte infinito. «Sta a ricordarci che vogliamo leggere il creato e la storia per mezzo di Cristo», dice don Ferrari. E già avverti come questo movimento, sorto nel cuore della regione più "rossa" dall’intuizione di un prete, ami incarnare l’amore per Cristo dentro la vita concreta e quotidiana. Dentro le comunità di famiglie, nelle case in cui vivono i suoi sacerdoti, nel movimento giovanile, nelle tre scuole. Don Pietro Margini, lungimirante come lo sono certi grandi cristiani, già negli anni ’50 avvertì attorno a sé il cedimento della società patriarcale, della famiglia che, sola ormai negli appartamenti delle città, perdeva di consistenza. «La salvezza dei nostri tempi - disse nel ’67 - deve venire dalle famiglie». E dedicò la vita, tra Correggio e Sant’Ilario d’Enza, alla famiglia, intesa come cuore e motore di una società cristiana.La sua intuizione fu quella di unire piccoli gruppi di famiglie in comunità. Non però in una "comune", come negli anni Settanta si usava, ma invece restando ciascuna famiglia a casa sua; legate fra loro, però, dal filo forte della fede in Cristo. Con frequenti momenti comuni, feste, e ritiri; con i figli che crescono assieme, come avendo ognuno dieci fratelli; con i padri e le madri che si aiutano reciprocamente nelle difficoltà concrete e, anche di più, in uno sguardo reciproco e buono. Oggi le "piccole comunità" sono 43, con circa 400 adulti e oltre 200 giovani. Non numeri grandissimi. Ma ti impressiona quanti sono i sacerdoti venuti dal Movimento: ben 20, e 4 seminaristi che oggi sono qui con noi a tavola, in questa casa sospesa come un belvedere sulla pianura. Una proporzione di vocazioni straordinaria. Come spiegarla? Emanuele, uno dei quattro ragazzi a tavola, dice semplicemente di avere visto, nei preti del Movimento, «degli uomini felici». Degli uomini dunque la cui vita poteva apparire, a un ragazzo, desiderabile. Lui e i suoi tre compagni studiano nel Seminario di Reggio - un dono in una terra che, come tutta l’Italia, non abbonda di vocazioni.Ma, domandi, che cosa cambia tra il vivere ciascuno per sé e l’essere invece una comunità? «Cambia completamente la prospettiva», risponde Marco Reggiani, che delle piccole comunità è il responsabile. Cisi aiuta con i figli bambini, e non si è più costretti a lasciarli soli davanti alla tv mentre i genitori lavorano; ci si aiuta, in tempi come questi, se a un padre il lavoro viene a mancare; si fanno corsi per mettere in contatto i giovani con gli imprenditori della zona. Nelle scuole del Movimento, che hanno fama di scuole esigenti, le rette sono ridotte al minimo, perché alcuni genitori prestano ore del loro tempo gratuitamente. Ci si aiuta insegnando non solo i programmi, ma anche, e prima ancora, uno sguardo sul mondo. Francesco, 27 anni, da poco sposato, fa parte di una comunità di quattro giovani famiglie: «È una grande possibilità di costruire insieme giorno per giorno, e una custodia reciproca nel quotidiano», dice. Un non essere soli dentro una città estranea, un avere accanto qualcuno che ti vuol bene e ti avverte, se ti vede andare dalla parte sbagliata. In realtà, l’intuizione di don Margini sta anche in un ricreare quel tessuto che pervadeva le grandi famiglie di un tempo. Anche, ma non solo. Perché se così fosse, sarebbe una ricetta sociologica. Il filo forte, di acciaio che tiene insieme questa comunità, è ben altro. È la Parola letta e meditata insieme, è il modo stesso di guardare al prossimo. «Il centro c’è e si vede, ed è Cristo», dice Maria Rita, madre di famiglia, che da poco è nel Movimento, e sa la differenza con la vita degli altri. Così che Familiaris consortio è nella sua essenza una educazione ad amare che comincia da piccolissimi, e conduce a una preparazione al matrimonio rigorosa. «In alcune parrocchie – osserva don Ferrari – a dieci anni dalle nozze solo una coppia su tre è ancora insieme. Tra le nostre famiglie invece la percentuale delle separazioni è ridottissima. Nel vivere delle comunità ci si sostiene, e si vedono i problemi quando ancora non è troppo tardi per affrontarli». Si impara, ti spiegano attorno alla tavola, «che ogni passo va fatto nella libertà, non come bisogno compulsivo». Insomma, nel tessuto di una delle zone più secolarizzate d’Italia, un innesto di un modo antico ma sempre nuovo di vivere. Quell’essere profondamente assieme ti fa pensare all’essere «un cuor solo e un’anima sola» dei primi cristiani. Ma queste piccole comunità di fedeli come seminate nella moltitudine di un tempo distratto, non ricorda forse anche la dinamica benedettina? Come il nuovo vescovo di Reggio, Massimo Camisasca, ha detto al Movimento pochi mesi fa: «L’ideale benedettino dell’ora et labora, di una piccola comunità che unisce la preghiera alla vita comune, al lavoro quotidiano, nell’inesauribile fantasia dello Spirito, ha dato luogo a una nuova forma di vita».Duecentoventi ragazzi fanno parte oggi del Movimento giovanile; si ritrovano nei "circoli di amicizia", e ogni gruppo ha alle spalle una famiglia di riferimento, e un sacerdote. Che vuole dire, a sedici o diciott’anni, non essere soli. Ma tutto tiene perché non è organizzazione o sociologia; tutto tiene nella costante fedeltà alla Madonna, e nel nome di Cristo, custodito in quel tabernacolo che dietro ha non un affresco, ma questa feconda, larga pianura.​​​​​
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