martedì 2 novembre 2021
Tutti riconosciuti come profughi, ma lontani da quasi 5 anni. Truffati in Grecia, bloccati nei Balcani. “Vogliamo solo tornare a vivere insieme e dimenticare la guerra in Siria”
La famiglia Adday, in Bosnia, attende il ricongiungimento con la madre in Germania.

La famiglia Adday, in Bosnia, attende il ricongiungimento con la madre in Germania. - Scavo

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I guai sono cominciati quando ha deciso di fare le cose secondo la legge. Ed è per legge che da quasi cinque anni un padre siriano e i suoi tre figli minorenni non possono vedere la mamma. Profuga lei, profughi anche il marito e i ragazzi. Ma in Paesi diversi che non riescono ad accordarsi per il ricongiungimento.

Il più piccolo di anni ne aveva sette quando i poliziotti lo portarono via dalla madre insieme alle sorelline di 8 e 12 anni. Con il padre, lui che in Siria era dirigente d’azienda, a ribellarsi inutilmente ai gendarmi greci.

Non è che l’inizio di una storia con tante puntate, troppi colpi di scena e ancora nessun lieto fine. Per incontrarci il capo della famiglia Adday ha regolato la barba nel taglio elegante di un emiro d’altri tempi. E anche i figli hanno indossato i vestiti migliori per farsi fotografare, autorizzando alla diffusione delle immagini nella speranza che il caso si sblocchi.

Dopo la fuga dalla Siria erano finiti in un campo profughi in Libano. Ad aspettarli, solo una tendopoli sovraffollata. Però avevano denaro per rimettersi in pari con la vita. Sembrava facile: un volo da Beirut a Istanbul e poi, in qualche modo, in rotta verso l’Europa del Nord. «Abbiamo pagato i trafficanti che ci hanno fatto partire per le isole della Grecia». Qui di nuovo un campo profughi e la domanda d’asilo. Ma i tempi di Atene non sono quelli di un padre che ha fretta di mandare i figli a scuola e trovarsi un lavoro..

Lui non era mai stato un governativo, e dopo le rivolte del 2011 finì nel mirino della sbirraglia del dittatore Assad. La moglie, pur tenendosi alla larga dalle questioni politiche, per il solo fatto di lavorare in un ministero finì invece per essere indicata tra i collaborazionisti del regime. Ovunque guardassero, trovavano nemici. In Grecia, però, i funzionari delle commissioni per l’asilo non avevano tempo per ascoltare queste storie: «Tornate domani». Intanto i mesi passano. «E allora abbiamo comprato dei passaporti falsi e un biglietto per la Germania». Quando arrivano all’aeroporto di Atene, sanno che potrebbe andare male. Quello che non potevano immaginare è che le cose sarebbero andate come neanche il più sadico dei drammaturghi avrebbe messo nero su bianco. Dopo aver superato i controlli la madre viene fatta salire su uno dei due bus che portano i passeggeri fino alla scaletta dell’aereo, il papà e i bambini sulla navetta successiva. Oramai era fatta. Il tempo di salire a bordo, allacciare le cinture, e sognare Berlino.

Invece, proprio quando le bussole stanno per chiudersi, sul secondo autobus piomba la polizia aeroportuale. Tutti i documenti vengono di nuovo controllati. L’aereo raggiungerà la capitale tedesca con qualche minuto di ritardo e quattro posti vuoti. Erano quelli dell’uomo e dei suoi tre bambini. Sono trascorsi quattro e più anni e da allora non c’è stato verso di riunire la famiglia. La donna ha ottenuto il livello più alto di protezione umanitaria in Germania: rifugiato politico. Ma quando il resto della famiglia affida a un legale greco le pratiche per ottenere il via libera al ricongiungimento, questi dopo un po’ si dilegua e sparisce con soldi e documenti. Lasciando scadere i termini per il deposito dell’istanza.

Trascorrono altre settimane in attesa di una soluzione che non arriva. Non resta che rimettersi in cammino. Per settimane, anzi anni. Prima l’Albania, poi Montenegro e infine Sarajevo e Bihac in Bosnia. In totale 1.500 chilometri. «In gran parte a piedi».

Ora che la mamma ha un impiego stabile a Berlino, con cui permette al marito e ai figli di sopravvivere in Bosnia, non ci sarebbe ragione per prolungare l’ingiusto castigo di una separazione forzata. Quando si tengono per mano è per non cedere alle lacrime.

«I miei figli – proferisce l’uomo facendosi tradurre in inglese da Nimet, la figlia maggiore – a causa di queste lunghe attese in Paesi diversi hanno imparato cinque lingue. Vedrete che, se potranno riabbracciare la madre, saranno dei ragazzi di successo». Hanno un solo desiderio: che in Germania o dovunque da qualche parte in Europa ci sia ancora un funzionario che sappia riconoscere che la banalità del male alle volte è un timbro non messo.

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