martedì 15 febbraio 2022
Secondo i giudici della Consulta «non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili»
La Corte costituzionale

La Corte costituzionale - Ansa

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La Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile il referendum sulla depenalizzazione dell’omicidio del consenziente, proposta dall’Associazione Luca Coscioni.

La Corte costituzionale si è riunita oggi in camera di consiglio per discutere sull’ammissibilità del referendum denominato “Abrogazione parziale dell’articolo 579 del Codice penale (omicidio del consenziente)”.

In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio comunicazione e stampa fa sapere che la Corte ha ritenuto inammissibile il quesito referendario perché, a seguito dell’abrogazione, ancorché parziale, della norma sull’omicidio del consenziente, cui il quesito mira, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili. La sentenza sarà depositata nei prossimi giorni.

Hanno prevalso il «principio di indisponibilità della vita», la cui «estromissione dall'ordinamento determinerebbe un insanabile vuoto normativo», e «la mancanza di chiarezza del quesito, essendo imprevedibili e incerti gli effetti derivanti dalla parziale abrogazione proposta, in contrasto con la trasparenza che dovrebbe orientare la volontà dell'elettore». È il commento a caldo del «Comitato per il No all'omicidio del consenziente», presieduto da Assuntina Morresi e rappresentato nel dibattimento davanti alla Corte costituzionale dai giuristi Mario Esposito e Carmelo Leotta, che «esprime soddisfazione» per la decisione della Consulta che «permette ora di affrontare con maggiore equilibrio la discussione parlamentare sul cosiddetto testo Bazoli riguardante l'eutanasia, che sostiene – a nostro avviso erroneamente – di dare attuazione alla sentenza n. 242/2019 della stessa Corte, e di farne emergere le incoerenze e il superamento dei confini da essa stabiliti».

La senatrice centrista Paola Binetti, già presidente di Scienza & Vita e protagonista nel 2005 della battaglia referendaria sulla legge 40, esprime «estrema soddisfazione» per la decisione della Corte. «È passata la nostra linea: sulla vita non si vota – aggiunge, citando lo slogan della campagna di 17 anni fa –. Mi auguro adesso che la Camera agisca coerentemente con le decisioni prese dalla Corte». A Montecitorio, come noto, è in discussione la legge che dovrebbe recepire la sentenza con la quale nel 2017 la Consulta depenalizzò l’aiuto al suicidio in alcune circostanze definite e condizionate.

La sconfitta non sembra scoraggiare i radicali dell’Associazione Luca Coscioni: «Il cammino verso la legalizzazione dell'eutanasia non si ferma – si legge in una nota –. Certamente, la cancellazione dello strumento referendario da parte della Corte costituzionale sul fine vita renderà il cammino più lungo e tortuoso, e per molte persone ciò significherà un carico aggiuntivo di sofferenza e violenza. Ma la strada è segnata». La strada segnata in realtà è quella che ha tracciato la Consulta, che ha respinto con parole chiarissime la richiesta di ammettere il referendum. Ma «l'Associazione Luca Coscioni non lascerà nulla di intentato, dalle disobbedienze civili ai ricorsi giudiziari, "dal corpo delle persone al cuore della politica"», secondo il metodo caro alla storia radicale, mentre si annuncia un impegno di respiro europeo con «iniziative per la libertà di scelte di fine vita e per l'abrogazione delle norme proibizioniste a livello europeo».

Di «populismo bioetico» e «deriva mortifera» fermati parlano il leader di Pro Vita & Famiglia Toni Brandi e il presidente del Comitato «No all'eutanasia legale» Jacopo Coghe.«Siamo grati alla Corte – annunciano – per il coraggio con cui non si è fatta intimidire da pressioni politiche e mediatiche di ogni genere». La Corte «ha indicato un livello minimo di tutela della vita umana fragile inviolabile, e noi riteniamo che il progetto sul suicidio assistito violi quel livello minimo, andando oltre quanto la stessa Consulta ha deciso nel caso Cappato. Dalla Camera ci aspettiamo una risposta importante che investa sulle cure palliative e aiuti i sofferenti a vivere con dignità, e non a farsi ammazzare».

«È la conferma che su questi temi occorre procedere con massima attenzione, prudenza e cautela». Lo dichiara Maria Antonietta Farina Coscioni, presidente dell’Istituto Luca Coscioni e vedova dell’uomo al cui nome è intitolata l’Associazione che ha raccolto le firme per il referendum naufragato e che annuncia a caldo che «non lascerà nulla di intentato, dalle disobbedienze civili ai ricorsi giudiziari». Dalla Camera Alfredo Bazoli (Pd) fa sapere che la decisione della Corte «non incide sull’iter di approvazione della legge sul suicidio assistito», di cui è relatore, «incardinata alla Camera e pronta per la discussione. Si tratta infatti di una legge che tratta un tema diverso».

Per il referendum, il tesoriere dell’associazione Marco Cappato aveva depositato in Cassazione oltre un milione e 200mila firma (anche qui utilizzando sia il metodo cartaceo sia quello online), ma di quelle la suprema Corte ne aveva dichiarate valide 543.213: 481.745 cartacee e 61.561 digitali. Queste ultime, perciò, si sono rivelate determinanti per raggiungere la soglia minima di firme richiesta dall’articolo 75 della Costituzione.

In sostanza, il quesito chiedeva se si è d’accordo con l’abrogazione parziale dell’articolo 579 del codice penale – l’omicidio del consenziente, appunto – , che punisce con la reclusione da 6 a 15 anni chi procura la morte di una persona con il suo consenso.


Molte le preoccupazioni sollevate da più parti. Il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick ha rilevato il pericolo, sulle pagine del nostro giornale, di prendere «una china il cui esito non è prevedibile». In questo caso, la mancanza di una legislazione in materia, per lo stesso Flick, lascerebbe spazio ai referendari. Per Cesare Mirabelli, altro presidente emerito della Consulta, tagliare l’articolo 579 del codice penale potrebbe portare «ben oltre l’eutanasia».



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