venerdì 23 dicembre 2022
Si può essere in regola, ma bastano degli eventi particolari (come la pandemia da Covid), che si diventa degli invisibili, magari senza un tetto. Lo Stato chiude gli occhi, c'è solo il volontariato
Il Naga aiuta i migranti a superare gli scogli della burocrazia di uno Stato che genera situazioni irregolari

Il Naga aiuta i migranti a superare gli scogli della burocrazia di uno Stato che genera situazioni irregolari - Naga

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Quando arriva in Italia Karima è poco più che bambina, ha 13 anni. Prima di partire dal Marocco qualcuno le ha detto che qui potrà studiare e quando sarà grande avrà pure un lavoro. La famiglia di Karima, però, non è nella condizione di prendersi cura di lei e la ragazza viene affidata ai servizi sociali. Da questo momento tutto sembra prendere il verso giusto. La ragazza va a scuola e una volta conclusi gli studi trova subito un lavoro come cameriera. A 24 anni può pagarsi l’affitto di un appartamento. Un percorso lineare, che le permette di fare progetti.

L’avvento della pandemia, però, cambia tutto. La ragazza deve rinnovare il permesso di soggiorno, ma le pratiche non procedono. Per un ritardo amministrativo la donna diventa irregolare. Essendo priva di documenti, la giovane maghrebina viene licenziata e non riesce più a pagare l’affitto. Finisce per strada. È a questo bivio che incontra il Naga, associazione che a Milano offre assistenza sanitaria, legale e sociale gratuita alle persone che come lei hanno perso ogni diritto. E lì sarebbe ancora se un istituto religioso di suore della città non l’avesse accolta, dandole di nuovo un tetto.

«Otto mesi fa ho presentato per suo conto l’istanza per il permesso di soggiorno – spiega Cesare Mariani, volontario dello sportello legale Naga – . Al primo appuntamento con la questura mancava il passaporto, quindi le è stato detto di tornare tre mesi dopo. Una volta rinnovato, a novembre, arriva lì con tutta la documentazione, ma le viene detto che non è possibile poter procedere. Le viene dato un nuovo appuntamento a febbraio».

Quella di Karima è solo una delle storie di ordinaria irregolarità che abbiamo raccolto (i nomi dei migranti sono tutti di fantasia). Anche Brahim è finito per strada, ma per lui tutto è reso ancora più complicato dal suo stato psico-fisico. Ha 28 anni, è di origine eritrea e soffre di un grave disagio psichico. «Almeno sette su dieci delle segnalazioni che riceviamo riguardano persone in queste condizioni», racconta Rahel Sereke, consigliera e vicepresidente del Consiglio di Municipio 3 a Milano, che insieme ad altri volontari ha fondato “Cambio Passo”.

L’associazione è impegnata in attività di supporto a persone rifugiate e richiedenti asilo provenienti prevalentemente dal Corno d’Africa. «È stata la famiglia a chiederci aiuto perché non sapeva più come occuparsene», aggiunge Sereke. Arrivato qui ancora minorenne con un ricongiungimento familiare, Brahim si è ritrovato solo proprio nel momento in cui era più vulnerabile. «La malattia mentale di un figlio grava particolarmente su una famiglia immigrata – sottolinea la vicepresidente, che con la sua associazione ha iniziato ad assisterlo ¬ da oltre due anni – . Offriamo generi di prima necessità, orientamento e informazioni a chi si trova per strada. L’accesso alla richiesta di protezione internazionale, poi, è una tappa importante».

Nel caso di Brahim, “Cambio Passo” ha avviato la domanda, ma l’Italia non gli ha riconosciuto lo status per via della sua “pericolosità sociale”, ossia il disturbo psichico per cui avrebbe bisogno di aiuto. Con il supporto di un’avvocata chiamata dall’associazione, Brahim ha fatto ricorso. Oggi il giovane vive ancora per strada in attesa del riesame della sua pratica, ma senza la mediazione dei volontari, «non avrebbe saputo neppure a chi rivolgersi».

L’altra faccia di un sistema che non fa nulla per combattere l’irregolarità degli stranieri è quella dei Cpr, i Centri di permanenza e rimpatrio. Teresa, volontaria Naga, è una delle poche persone che ha potuto visitare quello di via Corelli, a Milano. Tra le tante situazioni monitorate, c’è quella di un ragazzo egiziano, Samir, che «in un Cpr non sarebbe dovuto neppure entrare dato che soffriva di epilessia», spiega. «Lui è arrivato nel centro direttamente dal carcere di Trento dopo aver scontato la pena. Gli era stata riconosciuta la buona condotta, aveva studiato e si era preparato all’esame per la licenza media». In via Corelli le crisi si sono fatte più frequenti, fino ad arrivare a tentativi di suicidio. «Ora l’abbiamo perso di vista e siamo molto preoccupati per lui» dice Teresa.

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