martedì 9 giugno 2020
L'appello: "Ha una dipendenza pesante e il Tso non è previsto per chi è positivo alle sostanze"
La mamma che ha denunciato il figlio: «Salvatelo dal carcere, va curato»

Ansa

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Erica ha dovuto denunciare a settembre il figlio 22 enne per possesso di droga. Era disperata e quella era l’unica strada per riuscire a curarlo.

Il figlio Gianni, nome di fantasia, romano, tossicodipendente da sei anni, è stato adottato da piccolo e soffre di una patologia psichiatrica. Si trova in un carcere del centro Italia dai primi di dicembre, doveva restarci per poco tempo per aver violato per l’ennesima volta il dispositivo della sentenza che lo obbligava a stare in comunità. Poi è scoppiata la pandemia e chissà quando potrà trasferirsi in clinica a curarsi. Non è uno spacciatore e neppure un violento. È solo una persona malata che per legge nessuno può obbligare a curarsi e che non si vuole curare perché il suo disturbo lo rende "borderline". Convive cioè con una personalità al confine di una "normalità" che valica spesso. La sua famiglia, per salvarlo da se stesso, ha dovuto denunciarlo e farlo processare. La condanna era di un anno e otto mesi, da iniziare in clinica e comunità. Non è un caso così raro, purtroppo. Poi lui si è allontanato dall’ospedale ed è finito in cella dove però lo ha bloccato il lockdown.

La madre lancia ora un duplice appello: il primo è che possa uscire dalla prigione per curarsi in clinica, dove è pronto a rientrare. Il secondo che si cambi la legge che non prevede l’obbligo di cura nemmeno nei casi gravi. Il Tso, il Trattamento sanitario obbligatorio, non è infatti previsto per chi è positivo alle sostanze. «Io – spiega – ho dovuto denunciarlo e farlo arrestare, perché non voleva curarsi e la sua dipendenza era diventata pesante, era arrivato ad assumere cocaina quotidianamente ». E questa famiglia si è sentita abbandonata dalla sanità pubblica, ovvero dallo Stato.

«È un ragazzo molto fragile – prosegue la madre – e dalla seconda liceo fa uso di sostanze. Ha iniziato con la cannabis, oggi è diventato da qualche anno cocainomane. Si porta dietro un dolore che non è mai riuscito ad esprimere, nonostante anni di terapia. Tutte le volte che si toccava l’argomento adozione, lui abbandonava la seduta. Mio marito ed io abbiamo fatto di tutto. L’ho seguito in quartieri dove neppure i tassisti mi volevano portare, ho denunciato i suoi spacciatori. Il suo rapporto con i Sert e le comunità propostegli è stato piuttosto travagliato e non ha portato a nessun esito. Le cure specialistiche ce le siamo trovate a pagamento».

Alla fine privatamente sono riusciti a farlo entrare in una clinica specializzata, che ha anche una comunità. «Mio figlio ha un disturbo "borderline", una brutta diagnosi, che l’ha portato all’uso di sostanze oltre ai traumi che si porta dentro. Però lo Stato ti lascia da solo. Trovo vergognoso che non esista l’obbligo di cura per i ragazzi almeno più gravi comprovati da una documentazione. Gianni non è uno spacciatore, si procurava le sostanze vendendosi le sue cose, i suoi vestiti, ma non ha mai rubato né fatto male a nessuno, non è un rapinatore. È finito in questo tunnel, la dipendenza è una malattia comprovata e lui ha una dipendenza molto forte. Quando va in crisi e pensa alla sostanza, è difficilissimo farlo restare nel posto in cui si trova. Quindi ho dovuto denunciarlo a settembre dopo aver trovato un sacchettino di marijuana in casa. Il giudice gli ha dato un anno e otto mesi da scontare in clinica e in comunità. Fino a novembre le cose sono andate bene, finché un ragazzo appena entrato non lo ha convinto a uscire e ha fatto uso di sostanze. Il primario ha dovuto mandarlo via per 3-4 settimane e ha avvisato i carabinieri e quindi è scattato il carcere. La Corte di Appello gli ha negato i domiciliari, in attesa di entrare in comunità».

In carcere Gianni prende delle medicine e non fa niente tutto il giorno. «Mi sento in colpa? Sì. Però credo di averlo tolto da guai peggiori. In carcere è in isolamento, con altri come lui. Ci sentiamo tutti i giorni in questo periodo di colloqui sospesi. Alla luce di quanto è successo agli inizi di questa pandemia, in carceri come quello di Modena, sono molto preoccupata. Chiedo che si possa curare presto in clinica e poi in comunità. Questa spero sia la volta buona».

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