giovedì 14 settembre 2017
L’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati parla di oltre mezzo milione di individui 'bloccati' nei 23 centri di detenzione governativi libici
Il centro detenzione di Zawiya, a 30 km da Tripoli.

Il centro detenzione di Zawiya, a 30 km da Tripoli.

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«La Libia continua a presentare una delle situazioni di flussi misti più complesse al mondo, con rifugiati e migranti che percorrono insieme rotte molto pericolose, attraverso il deserto e il mare, sopravvivendo ad abusi tra cui violenze sessuali, torture, detenzioni in condizioni inumane e rapimenti a scopo di estorsione». L’ennesima denuncia dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati conferma che al momento non vi è alcun miglioramento per la condizione dei migranti bloccati nei 23 centri di detenzione governativi – 7 sono stati temporaneamente chiusi la settimana scorsa – e nelle decine di prigioni clandestine che sfuggono a qualsiasi inventario della disumanità. I numeri che non fanno chiudere occhio agli operatori umanitari sono in continuo rialzo.

L’Acnur sta lavorando per assistere e proteggere «oltre 535.000 persone in Libia», tra le quali «oltre 226.000 libici sfollati interni a seguito del conflitto». Inoltre sono stati censiti «42.834 rifugiati e richiedenti asilo registrati », dunque persone che secondo l’Onu hanno diritto a una qualche forma di protezione umanitaria e che in alcun modo possono essere rimpatriate. Nel corso dei vertici internazionali più volte è stato assicurato che a fronte della chiusura della rotta marittima verso l’Italia sarebbe stata avviata una grande campagna per i rimpatri. «La risposta data finora è stata tutt’altro che adeguata », osservano fonti delle Nazioni Unite. Quest’anno sono stati reinsediate solo 6.700 rifugiati, meno di quan- to fatto nel 2016, quando vennero rimpatriate circa il doppio delle persone. Al momento, le limitazioni ai movimenti e la totale insicurezza impediscono agli operatori di conoscere e accedere nei lager illegali. «Effettuiamo visite regolari nei centri di detenzione ufficiali per fornire assistenza salvavita », spiega Roberto Mignone, rappresentante dell’Acnur per la Libia.

«La nostra presenza in questi centri non significa che appoggiamo tali strutture, né tantomeno ciò che vi accade», precisa Mignone, ma è «nostro dovere, comunque, fornire aiuto ai rifugiati e ai richiedenti asilo e promuovere la loro protezione, anche quando si trovano in detenzione». L’alto commissariato quest’anno ha potuto ottenere il rilascio di sole mille persone detenute perché migranti. Tra gli internati vi è anche un gruppo di trecento marocchini detenuti a Tripoli i quali implorano di venire riportati a casa, ma i rimpatri volontari sono ancora un miraggio, tanto che i maghrebini stanno inscenando uno sciopero della fame nella speranza che i governi dei due Paesi trovino un rapido accordo. Sullo sfondo resta la partita per il malloppo promesso dall’Europa: almeno 6 miliardi di euro per stabilizzare il Paese. Denaro che fa gola ai trafficanti i quali, in gran parte, hanno costituito milizie paramilitari che giocano un ruolo politico e uno criminale. Una partita che vede ancora una volta nell’oro nero la pedina più importante. L’Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar «sta prendendo» tutti i giacimenti di petrolio e i punti di esportazione del greggio della Libia, ha detto Ahmed al-Mismari, portavoce dell’Enl all’agenzia russa Interfax.

«Come rappresentanti delle forze armate - ha aggiunto al-Mismari - non interferiamo negli affari delle società petrolifere e di esportazione del petrolio. Forniamo solo sicurezza e garanzie». Cosa vogliano in cambio lo si vedrà nel corso dei prossimi summit internazionali. Ma il messaggio di Haftar suona come una beffa per il governo riconosciuto di Serraj che, in contemporanea, deve invece affrontare le minacce dei miliziani. Questi ultimi per un verso stanno rispettando l’ordine di bloccare le partenze di gommoni verso l’Italia, ma per l’altro intendono ottenere i promessi “risarcimenti” per la rinuncia al business dei migranti. A Mellita, nella Tripolitania occidentale, uno dei gruppi combattenti ha bloccato per 30 ore la chiusura della pipeline provocando al National Oil Corporation (l’organismo pubblico di controllo delle risorse petrolifere) una perdita di 2 milioni di dollari, equivalenti a circa 11 mila barili di idrocarburi. Dal dipartimento petrolifero assicurano di non sapere chi e perché abbia chiuso l’oleodotto. Non è un avvertimento da poco, perché la stazione di pompaggio bloccata a sua volta produce energia indispensabile al funzionamento di un importante centro estrattivo a ridosso del confine con l’Algeria. Tra gli effetti secondari vi è quello di lasciare al buio Tripoli che convive con continue sospessioni dell’elettricità. Nelle settimane scorse a Zawya, cinquanta chilometri ad est della capitale, altri tre campi petroliferi avevano sospeso il pompaggio a causa dell’occupazione degli impianti da parte di altre milizie armate. Una di queste bande si è autoproclamata quale «polizia petrolifera».

La stessa accusata dalle Nazioni Unite di tenere prigioniere migliaia di persone, ieri vittime di soprusi a scopo di estorsione oggi in ostaggio di chi li usa come scudi umani in una partita giocata a suon di euro. Denaro che non servirà solo a ristabilire un clima di pace. Altrimenti non si spiegherebbe perché, con il sostegno della Russia, si stia tentando di ottenere la cancellazione dell’embargo sulla vendita di armi in Libia. Lo ha confermato il portavoce dell’Esercito del generale Haftar, Ahmed al-Mismari. «Speriamo succeda molto presto. Soprattutto per quanto riguarda gli armamenti pesanti». LI

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