venerdì 12 giugno 2020
Le pronunce dei giudici da almeno 15 anni dimostrano che gli strumenti giuridici per tutelare le persone omosessuali funzionano
Anche la Corte di Cassazione ha emesso alcuni verdetti di colpevolezza, in un caso ricorrendo esplicitamente al termine «omofobia»

Anche la Corte di Cassazione ha emesso alcuni verdetti di colpevolezza, in un caso ricorrendo esplicitamente al termine «omofobia»

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Ingiuriare o discriminare una persona omosessuale è un comportamento antigiuridico. Già ora, con le leggi vigenti, senza alcuna necessità di crearne di nuove. Lo dimostrano decine di sentenze, pronunciate da magistrature di ogni ordine e grado, che da almeno 15 anni stanno riconoscendo ai gay né più né meno degli stessi diritti di cui deve godere ogni persona.

Eccone una breve rassegna. Nel 2005, con sentenza 2353, il Tar Catania chiarisce che l’«omosessualità non è una malattia psichica », e conseguentemente annulla il provvedimento con cui la Motorizzazione civile aveva disposto la revisione della patente di una persona dichiaratamente gay. Nel 2015 la vicenda arriva alla Corte di Cassazione, che nella sentenza 1126 scrive: «La parte lesa è stata vittima di un vero e proprio (oltre che intollerabilmente reiterato) comportamento di omofobia, che giustifica il diritto Idel giovane al risarcimento del danno». E attenzione: sempre gli Ermellini, cinque anni prima, avevano confermato la condanna di un anconetano che in una lettera aveva dato del «gay», con intento dispregiativo, a una persona: «Risponde del reato di ingiuria - così si legge infatti nella sentenza 10248, pronunciata dalla prima sezione penale - chi si rivolge a un’altra persona definendola 'gay' se, per il contesto in cui è utilizzato, tale appellativo assume carattere denigratorio». Presupposto normativo della condanna, in questo caso, è stato l’articolo 594 del codice penale, che punisce «chiunque offende l’onore o il decoro di una persona».

Nel 2016, invece, a depositare una pronuncia significativa - seppure causa di numerose polemiche -, è la Corte d’appello di Trento, che condanna una scuola a risarcire una sua insegnate con ben 30.000 euro, oltre a 10mila euro per Cgil e associazione 'Certi diritti' che si erano costituite in giudizio dalla parte della docente. Il motivo? Il mancato rinnovo del contratto di lavoro, dovuto - secondo questa magistratura - a una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale dell’insegnante in questione. Particolarmente interessanti sono i fondamenti giuridici della pronuncia, secondo cui «i divieti di discriminazione introdotti nel nostro ordinamento a più riprese, in modo un po’ frammentario, trovano oggi una sistemazione organica per la parte sostanziale nei decreti legislativi n. 286/98, n. 215/03, n. 216/03, n. 198/06 n. 67/06 e per la parte processuale nell’art. 28 decreto legislativo n. 150/11». Al di là del contenuto di queste corpose norme, i giudici trentini pongono sulla questione un decisivo punto fermo: nel nostro ordinamento, già esistono strumenti normativi organici in grado di punire chi discrimina le persone omosessuali.

E le sentenze continuano. Con la 9393 del 2017 è il Tribunale di Milano a ribadire la necessità di tutelare con l’articolo 595 del codice penale una persona offesa in quanto gay: «Commette il reato di diffamazione chi divulghi l’omosessualità di una persona allorché avvenga per denigrarla in ragione del termine dispregiativo utilizzato e del collegamento con episodi specifici». In questo caso, il reato si era concretizzato via Facebook: il condannato aveva dato del 'fr...' a un suo contatto.

Non solo. Con pronuncia 5009 del 2018, il Tribunale di Torino insegna che molestare una coppia gay può portare a una condanna per stalking, il reato definito dall’articolo 612 «atti persecutori »: l’imputato è stato condannato a un anno di reclusione, alle spese di giudizio e a un risarcimento immediato di 5.000 euro, oltre a quello che avrebbe dovuto essere fissato da un successivo giudizio civile (volto cioè ad accertare unicamente l’entità del pregiudizio sofferto dalla vittima, e non più la colpevolezza o meno dell’imputato).

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