mercoledì 5 giugno 2019
A due anni dall'entrata in vigore della normativa nata sulla scia del caso di Carolina Picchio, i minori conoscono ancora poco i propri diritti. Scuola e istituzioni? Sono in ritardo
Cyberbullismo, ecco perché la legge non salva i ragazzi
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Doveva essere una svolta, lo strumento concreto da mettere in mano ai ragazzi per difendersi dalla violenza e la diffamazione perpetrate online e sui social network. Quelle che nello spazio di poche ore possono arrivare anche a uccidere un adolescente, come è avvenuto nel 2015 a Carolina Picchio. E invece, a due anni dall’entrata in vigore della legge contro il cyberbullismo (che proprio alla memoria di Carolina è stata dedicata dal Parlamento), poco è cambiato sul fronte dell’emergenza. Che continua a mietere vittime al ritmo di decine di casi al giorno, tanto da coinvolgere un ragazzo tra i 9 e i 17 anni su quattro.

Il bilancio comincia dal sostanziale fallimento degli strumenti giuridici previsti dalla normativa e messi a disposizione dei ragazzi per difendersi dai cyberbulli: da una parte, il reclamo al Garante per la privacy (che la legge stabilisce possa essere inoltrato via mail, con un apposito modulo, direttamente dai minori) e che in 48 ore garantisce il ricevimento della richiesta e la rimozione del contenuto lesivo; dall’altra l’ammonimento, ovvero la convocazione da parte della Questura dei soggetti responsabili di atti di cyberbullismo insieme ai genitori. Ebbene, in 24 mesi (la legge è entrata ufficialmente in vigore il 18 giugno del 2017) i reclami presentati al Garante sono stati appena un centinaio, mentre gli ammonimenti si contano sulle dita di una mano: uno a Milano, uno a Torino, uno a Venezia (nel resto d’Italia, da Napoli a Palermo, è risultato persino impossibile risalire al dato). Mentre sul fronte della cronaca, i casi anche clamorosi di cyberbullismo si sono moltiplicati senza sosta. «Da un lato manca ancora la conoscenza di questi strumenti da parte dei ragazzi – spiega Marisa Marraffino, avvocato specializzato in reati informatici –: scuole e famiglie sono ancora impreparate e troppo spesso, questo è drammatico, osserviamo ancora come si tenda a colpevolizzare la vittima, o comunque a silenziare gli atti perquisitori piuttosto che denunciarli». Dall’altro lato, ci si deve scontrare con la burocrazia e con tempistiche istituzionali che cozzano in maniera stridente coi tempi della Rete. «Nel caso di denunce e ammonimenti per esempio – continua Marraffino – possono passare anche settimane prima che ci si faccia carico della denuncia di un minore. Quando un insulto postato in una chat o su Facebook, e peggio ancora un video, possono stravolgere la vita di un ragazzo già dopo pochi minuti». Il tutto mentre sempre più ragazzi (ma nel 70% sono ragazze) cadono nella trappola del sexting, cioè di condividere e postare immagini del proprio corpo che vengono poi utilizzate contro i protagonisti: «Questa sì una piaga enorme – continua Marraffino –, che alimenta un numero infinito di cause e che ci dice quanto i nostri ragazzi debbano soprattutto essere messi al centro di un percorso educativo di prevenzione».

Già, la prevenzione. Anche questa prevista dalla legge del 2017, che ne individua la scuola come principale protagonista e istituisce addirittura la figura del referente scolastico con l’obiettivo di coordinare le iniziative di contrasto al cyberbullismo. «E qui si può dire che, anche se a macchia di leopardo, la legge ha cominciato a portare i suoi frutti – spiega Ivano Zoppi, educatore dell’associazione Pepita onlus, in prima linea nelle scuole con Fondazione Carolina per i progetti di prevenzione –. Nel nostro caso, per esempio, ci ha permesso di intervenire in migliaia di scuole con progetti pensati ed efficaci». Mancano però due elementi chiave: la continuità degli stessi progetti (troppe le scuole che non riescono a dedicare al tema risorse e personale sufficienti e si limitano a interventi a spot) e la convocazione del tavolo interistituzionale tra ministeri, Agcom e Terzo settore «che era previsto dalla legge e senza il quale è impossibile mettere a sistema gli interventi svolti sul territorio, dando organicità e senso all’impegno coi ragazzi» conclude Zoppi. Risultato? «La buona legge resta senza gambe e applicata bene da pochi volenterosi». E questo, contro l’epidemia del cyberbullismo, non può bastare.

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