martedì 4 maggio 2021
Ricerche inglesi e americane fanno emergere l’attività del nostro organismo nel contrastare le varianti del Sars-CoV-2. «Inutili le due dosi in chi è stato malato»
Sempre più studi confermano il ruolo di alcune cellule del sangue (T e B) nel proteggere i guariti da nuove infezioni, come aveva evidenziato ad Avvenire, la scorsa settimana, l’immunologo Luca Guidotti

Sempre più studi confermano il ruolo di alcune cellule del sangue (T e B) nel proteggere i guariti da nuove infezioni, come aveva evidenziato ad Avvenire, la scorsa settimana, l’immunologo Luca Guidotti - Reuters

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Chi ha fatto il Covid 19 è immunizzato per anni? Quella che prima era una speranza o, tutt’al più, un’intuizione, sta diventando un’evidenza scientifica. La buona notizia, apparsa su Science, viene dall’Inghilterra. Un gruppo di ricercatori ha studiato se la vaccinazione con una sola dose, somministrata ad operatori sanitari che avevano superato l’infezione e ad altri che non erano stati contagiati, conferisse un’immunità protettiva incrociata alle varianti, che rappresentano l’incubo degli inglesi, così come per tutti i Paesi che sono impegnati nella vaccinazione di massa. Al centro dello studio - certo non il primo sull’argomento - ci sono le risposte delle cellule T e B dopo la prima dose del vaccino mRna di Pfizer-BioNTech in operatori sanitari, con o senza precedente infezione da Sars- CoV-2.

Le cellule T sono un tipo di linfocita; sono coinvolte nel determinare una risposta immunitaria e possono reclutare nella produzione di anticorpi anche i linfociti B. Entrambe le cellule sono studiate per capire come gestire la tempesta citochinica, cioè l’infiammazione scatenata dalla risposta immunitaria al Covid-19 e sovente fatale per il paziente. Proprio analizzando quest’aspetto, si è scoperto che le T hanno un ruolo utile nell’immunità a lungo termine, quella in cui interviene la "memoria" delle nostre cellule. Uno studio di Anthony Kusnadi (Università di La Jolla, California), di cui si parla già dal mese di luglio del 2020, suggerisce che il paziente con Covid-19 severo guadagna una più forte immunità a lungo termine proprio perché, una volta superata l’infezione, conserva un più elevato numero di cellule T, capaci di reagire alla proteina Spike del virus. Il ruolo di T è quindi cruciale: non a caso la maggior parte dei vaccini si sviluppa intorno alla proteina Spike, che rappresenta il target di T.

Ragionando su questi studi, l’immunologo Luca Guidotti, che ha lavorato a La Jolla con Kusnadi e con Shane Crotty (quest’ultima, alla fine del 2020, ha firmato uno studio secondo cui chi ha superato l’infezione è immune per almeno otto mesi), ha invitato su Avvenire a studiare bene il ruolo di questi globuli bianchi specializzati nel riconoscimento delle cellule infettate da virus: «Sono convinto che diano più protezione rispetto agli anticorpi vaccinali», ha detto, pronosticando, sulla base delle esperienze condotte sulla prima Sars, una protezione addirittura ventennale non solo dalla Spike ma da tutte le proteine del nuovo coronavirus.

Nella ricerca britannica, invece, si confrontano questi dati con il vaccino Pfizer. Con risultati interessanti. «Dopo una dose – leggiamo infatti su Science –, gli individui con infezione precedente hanno mostrato un’immunità potenziata delle cellule T» oltre a «una risposta anticorpale delle cellule B». La ricerca focalizza la risposta sulle varianti, come abbiamo detto, e proprio per questo i suoi risultati sono significativi per tutti coloro che stanno lavorando sui vaccini. «In confronto – proseguono gli autori, tra cui il cardiologo Marianna Fontana –, gli operatori sanitari che hanno ricevuto una dose di vaccino senza infezione precedente hanno mostrato un’immunità ridotta contro le varianti».

A prima vista, un tale genere di risultati potrebbe indurre a non vaccinare i guariti da questa malattia, confidando sulla sufficienza della protezione immunitaria indotta dall’infezione superata; ma se, al contrario, l’obiettivo è quello di eradicare il coronavirus queste conoscenze permetteranno di gestire in modo migliore la vaccinazione, dal momento che, come sottolineano i ricercatori, «la vaccinazione con una singola dose di Pfizer nel contesto di una precedente infezione con una variante eterologa migliora sostanzialmente le risposte anticorpali neutralizzanti contro le varianti». In altre parole, se uno ha fatto il Covid-19 ha gli anticorpi, ma il vaccino continua ad essere utile in quanto li potenzia "sostanzialmente". Il meccanismo è quello del booster ed infatti la popolazione italiana – che possiede già gli anticorpi all’influenza stagionale – viene vaccinata ogni anno. Anche nel caso del Covid-19, la vaccinazione a dosi può essere vista dunque come una "spinta" dopo l’infezione naturale.

Tuttavia, questo tema va approcciato con grande cautela. Così come non è ancora possibile essere assolutamente certi, basandosi solo sull’esperienza della prima Sars del 2002 (quel coronavirus è simile al Sars-CoV-2 solo al 95%), che l’aver patito il morbo ci protegga da un nuovo contagio più di quanto ci proteggerebbe il vaccino e che ciò possa avvenire per decenni (al momento si è certi che l’immunità degli infettati dura almeno 10 mesi), allo stesso modo è fondamentale capire come la vaccinazione influenzi le risposte immunitarie in modo diverso e specifico negli ex malati, perché questa comprensione è in grado di condizionare sia gli investimenti delle case farmaceutiche sia i piani vaccinali dei governi. L’ultima ricerca uscita su Science stabilisce che la vaccinazione con una sola dose dopo l’infezione permette di raggiungere livelli di anticorpi simili a quelli di due dosi in individui che non hanno subito la malattia e che la vaccinazione con una seconda dose in individui vaccinati dopo l’infezione non offre alcun miglioramento aggiuntivo.

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