sabato 27 novembre 2021
Parla l'epidemiologo computazionale (Northeastern University di Boston) che incrocia scienza medica e mondo matematico per prevedere le prossime mosse del Covid-19
Alessandro Vespignani, epidemiologo computazionale alla Northeastern University di Boston

Alessandro Vespignani, epidemiologo computazionale alla Northeastern University di Boston - .

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«Se io oggi le dicessi che a Milano il 22 febbraio del 2022 ci saranno 10 centimetri di neve, lei saprebbe immediatamente che sono un ciarlatano». Eppure, ancor più adesso che lo spettro della variante Omicron rischia di ripiombarci nell’assoluta incertezza, la classica domanda rivolta agli epidemiologi è «quando finirà?», «quanti contagi a Natale?».

Pretendiamo previsioni certe e poi apriti cielo se le cose andranno in modo diverso: «La comunicazione di massa fa confusione tra scenari e previsioni, due cose totalmente diverse. Le previsioni arrivano al massimo a quattro settimane, chi dà certezze più a lungo termine inventa. Gli scenari invece hanno sì un lungo orizzonte temporale, ma simulano i tanti futuri possibili nell’evoluzione della pandemia, attraverso modelli elaborati al computer che tengono conto delle numerose variabili».

Alessandro Vespignani, epidemiologo computazionale di fama internazionale alla Northeastern University di Boston, incrocia scienza medica e mondo matematico, giocando a scacchi con il virus: il suo compito è prevenire tutte le possibili mosse del "nemico", immaginando cosa fare a seconda del pezzo che il Covid deciderà di muovere. Come accade in questi giorni, con la variante Omicron piombata improvvisamente a cambiare le carte in tavola. Lo abbiamo intervistato a margine della "Healthy Ageing Week 2021" sostenuta dalla Fondazione Ferrero ad Alba, che ha messo a confronto le voci di settanta tra i massimi ricercatori di tutto il mondo.

Nessuna sfera di cristallo ma tanti scenari probabilistici: è così che la scienza lavora?
La gente pensa che la scienza "cambi idea" ogni giorno. Non è così: i modelli informatici permettono di creare "mappe di probabilità" degli eventi futuri. Non ci dicono quello che di certo succederà, ma simulano scenari differenti a seconda delle varie condizioni di intervento. La pandemia ci fa tanta paura proprio perché il futuro ci è ignoto, ma quello che nei tg non viene mai spiegato è che le previsioni non dicono «settimana prossima avremo 1.500 casi» ma danno delle "forchette", intervalli statistici che se non vengono discussi danno messaggi sbagliati. L’uso degli scenari è vitale per determinare le giuste risposte alla pandemia.

Come funzionano?
Si basano su assunzioni calcolate rispetto agli interventi governativi e ai comportamenti della popolazione. Ad esempio se si riuscirà a vaccinare una certa frazione della popolazione, allora eviteremo tot numero di decessi; se si rinuncerà allo smart working, avremo un certo numero di casi in più, ecc. Deve essere chiaro che questi scenari non sono mai la precisa realtà, ma aiutano a valutare gli interventi e il rischio legato a scelte e comportamenti diversi. Inoltre, come stiamo vedendo anche con la nuova variante Omicron, il virus ha la sua imprevedibilità. Ad esempio a novembre 2020 abbiamo fatto le nostre proiezioni, ma non potevamo sapere che durante l’estate sarebbe arrivata la variante Delta tre volte più trasmissibile. Per questo motivo tutti i modelli successivi sono mutati, come gli scenari per il futuro.

Lavorate su tanti periodi ipotetici della possibilità, insomma.
Ma questi strumenti servono a determinare qual è il livello reale di pericolo e quindi l’effetto di ogni intervento. Tra gli scenari, ce n’è uno che usiamo come benchmark, come "riferimento" base, quello in cui immaginiamo che non venga fatto nulla per contrastare il contagio e quindi la pandemia corra senza ostacoli nella popolazione: è la possibilità peggiore, lo scenario catastrofico che sicuramente non avverrà mai, perché qualche azione contro il virus viene sempre fatta… a noi serve solo come base di raffronto, eppure è proprio lo scenario che i media si accaniscono a riportare, tra i tantissimi che noi produciamo per le varie unità di crisi!

Chi non conosce nulla, ha l’impressione che le decisioni sul contrasto al virus vengano prese a tentoni e presto contraddette. Invece sono frutto di queste osservazioni continuamente mobili. Ci fa qualche esempio concreto di utilizzo dei modelli?

Li abbiamo usati per decidere come vaccinare la popolazione, se in base ai comportamenti cioè dando la priorità ai giovani che hanno più contatti, o se in base al rischio ovvero iniziando da anziani e fragili. I modelli matematici hanno dimostrato che è vero, se vacciniamo prima chi ha più contatti abbassiamo l’attività epidemica, ma per abbassare le morti è necessario immunizzare subito i fragili, come è stato fatto ovunque. Un altro esempio: nel 2009 perché non ci sono stati lockdown come per il Covid, nonostante la grande pandemia di influenza H1N1? Perché in quel caso nemmeno lo "scenario base" vedeva la distruzione del sistema sanitario e centinaia di migliaia di morti, quindi il livello di interventi è stato modulato diversamente. I modelli non sono oracoli o diktat, ma elementi di ragionamento per chi poi prenderà le decisioni: la scienza è l’input, poi la decisione è sempre un esercizio anche politico.

Dunque a gennaio 2020 i modelli "vedevano" la tempesta che presto ci avrebbe travolti?

In un panorama molto confuso, davano già una consapevolezza: dalla Cina arrivava solo la notizia di poche polmoniti atipiche nella città di Wuhan, eppure grazie ai casi che iniziavano a essere osservati qua e là (due in Tailandia, uno in Giappone, poi in altre zone) i modelli vedevano già la gravità della situazione in Cina. Infatti, a partire dai casi identificati internazionalmente, ci dicevano quale era la dimensione attesa dell’epidemia all’epicentro, e verso il 20 gennaio ci davano una grandezza dell’ordine di decine di migliaia di casi in Cina, evidenziando già una forte trasmissione uomo-uomo. Da qui sono stati diramati gli allarmi che abbiamo visto. Poi a metà febbraio 2020 l’epidemia sembrava rientrata e si respirava un’apparente quiete internazionale, invece i modelli ci dicevano che nel mondo c’era già una tale dispersione di individui infetti che presto l’epidemia sarebbe stata globale e per vederla non bastavano più i test su chi arrivava solo dalla Cina.

Un’ingenuità fermare i cinesi quando il virus era in mezzo a noi (ingenuità da non ripetere adesso con la variante Omicron).

Succede nella "fase criptica" dell’epidemia: mentre in Europa e negli Usa a inizio 2020 venivano identificate solo poche decine di casi, in realtà l’epidemia si era già sviluppata in molti centri e stava determinando le sorti della pandemia. La trasmissione locale però era invisibile perché non si facevano test e molti contagiati erano asintomatici: fino a che non c’è un volume tale di infezioni da causare il sovraccarico del sistema sanitario e i primi decessi, un’epidemia come questa non viene osservata.

La Germania ci cita come esempio e tutti i Paesi seguono le nostre strategie. L’Italia ha preso le decisioni migliori?

Dare medaglie è sempre prematuro durante una pandemia. L’Italia, come tutti gli altri Paesi, ha fatto errori importanti, come cose eccellenti in alcuni snodi cruciali. In questa ultima fase, se andiamo a guardare cosa sta succedendo, l’Italia ha avuto fin dall’estate un approccio ispirato alla cautela, dal green pass alle mascherine alle regole sull’affollamento, e questo ha certamente aiutato la situazione epidemiologica. Altri Paesi purtroppo non hanno adottato simili strategie e ora registrano attività epidemiche in rapida crescita. Però va detto che hanno anche avuto campagne vaccinali di minor successo, ad esempio Germania e Austria, per non parlare poi di Croazia, Slovenia ed Est Europa, e adesso cercano di riprendere il controllo stimolando l’immunizzazione. Con l’inverno osserviamo dappertutto rialzi di epidemia, ma con una traiettoria diversa in ogni Paese a seconda dei vaccinati in totale, del numero di anziani immunizzati (è il dato più importante), della velocità nei richiami, delle norme di sicurezza e distanziamento. Per ora l’Italia si sta muovendo bene, però ad esempio Spagna e Portogallo hanno fatto meglio con vaccinazioni estremamente più alte.

Hanno meno no vax, forse.

Il problema dei no vax è quanto si riesce a fare buona comunicazione e convincere la popolazione. Ogni Paese ha comunicato in modo diverso e questo ha creato la eterogeneità che vediamo in Europa, ma anche tra le nostre Regioni. In Italia è urgente convincere i milioni di over 50 anni ancora non immunizzati, ogni vaccino in più in quelle fasce d’età è estremamente importante per proteggere il sistema sanitario, che poi è il vero problema: nel momento in cui si ha un’alta diffusione di virus, ci sono ricadute sul fronte ospedaliero e quindi sul trattamento delle altre malattie, con il rischio di tornare alle misure di contenimento che tutti vogliamo evitare. Convincere certe fasce di età ed essere molto bravi con i richiami ci può realmente dare la tranquillità per i mesi futuri.

A proposito di richiamo, molti si allarmano perché dopo sei mesi il vaccino inizia a perdere efficacia.

Allarmismo curioso. Per tutti i vaccini abbiamo sempre fatto booster (richiami). Ci sono vaccini per cui ne facciamo tre o più, altri per i quali il richiamo viene fatto regolarmente, quello influenzale va addirittura cambiato ogni anno, dov’è la novità? Il Sars Cov2 è un patogeno nuovo, stiamo comprendendo adesso se e quanto avremo bisogno di fare richiami, probabilmente nel futuro lo modificheremo per renderlo via via più specifico per le nuove varianti… Ci possono essere tanti sviluppi, bisogna agire in maniera serena e tranquilla come abbiamo sempre fatto con tutti i vaccini.

Però il vaccino del vaiolo si è fatto una volta nella vita.

Per carità, era un vaccino che con gli standard attuali sarebbe impensabile. Si immagini se il vaccino per il Sars Cov2 lasciasse sul braccio una vistosa cicatrice a vita... Premesso questo, che ne sappiamo? Il vaiolo è stato eradicato, per questo non facciamo più i richiami, ma se per assurdo tornasse non sappiamo quanto saremmo ancora coperti, è molto probabile che dovremmo fare un richiamo, ma qui entriamo nella fantascienza. Restando invece nella scienza, la diminuzione di protezione per cui va fatto il richiamo non significa affatto che il vaccino dopo 6 mesi non funziona più, ma che protegge molto meno dall’infezione mentre continua a dare una protezione molto alta dall’evoluzione severa della malattia e dal decesso. Il richiamo alle persone anziane e fragili massimizza questa sicurezza, ma in tutte le età aiuta a fermare la trasmissione del virus, per questo è molto utile farlo a tappeto.

Da epidemiologo computazionale, trova opportuno vaccinare i bambini?

Il vaccino pediatrico, già approvato negli Usa e in Europa dai 5 agli 11 anni, va a dare una protezione proprio nella fascia di popolazione che, essendo non vaccinata, è un serbatoio per la diffusione virale. Immunizzare i bambini è importante non solo per proteggere la popolazione a livello generale, ma anche i bambini stessi, perché quando il numero di casi diventa molto grande c’è un rischio anche per loro. Certo, è raro, ma essendoci un vaccino sicuro perché non proteggerli? Sarà una partita importante: quanto saremo bravi a proteggere anche quella fascia di popolazione, quanto più avremo benefici nel controllo dell’epidemia e delle varianti. Soprattutto se vogliamo tornare in un mondo normale.

Non le chiedo quando, ma ci torneremo a quel mondo?

Una pandemia non ha una data di scadenza. E soprattutto non la si può valutare guardando il cortile di casa: anche quando in un Paese va tutto bene, se circola negli altri si ricomincia. A maggio 2020, quando qualcuno diceva «è finita», io avvertivo che sarebbe rimasta con noi ancora a lungo, perché allora non si intravvedeva un vaccino. Adesso però lo abbiamo, quindi per il prossimo futuro ci aspettiamo di vedere un’attività epidemica "a cunette", non più a grandi picchi, con il virus che rialzerà e riabbasserà la testa, ma senza i numeri tragici di ospedalizzazioni e le restrizioni drammatiche che abbiamo visto in questi anni. Potremo tornare a una vita sempre più normale, però non da domani: purtroppo, come stiamo vedendo, i virus mutano e le varianti ci rendono la vita più difficile. Anche in questi giorni stiamo monitorando con grande attenzione la variante Omicron, per la quale ci sono segnali di maggiore trasmissibilità, che vanno confermati ma che certo non ci lasciano tranquilli.

È essenziale capire che non ci siamo solo noi.

Le grandi ondate epidemiche in corso in certe nazioni possono generare nuove varianti che complicano il nostro percorso verso la normalità. Per questo i Paesi sviluppati come l’Italia hanno una responsabilità globale: non possiamo immaginare di produrre vaccini solo nei Paesi ricchi, dobbiamo dare capacità di risposta scientifica, farmacologica e di ricerca anche a regioni che in questo momento non l’hanno. È un atto di generosità e allo stesso tempo il più egoista che c’è: altrimenti ci troveremo tante altre volte in questa situazione. E guardate che poteva andarci molto peggio.

Non voglio immaginare se fossimo stati investiti da una pandemia come Ebola.

Ebola ha una mortalità dal 50 al 70%, non voglio neanche arrivare lì. Mi basta dire che il Covid ha una mortalità percentualmente esigua eppure vediamo che disastri fa quando i numeri diventano enormi. Immaginatevi allora se avesse avuto il doppio di mortalità. E ricordiamoci che per molti virus e batteri un vaccino potremmo non riuscire ad averlo…

Quando a novembre 2020 sentimmo dire che forse era in arrivo un vaccino, ci è sembrato un miracolo insperato.

Un anno fa quando ci hanno detto che il vaccino funzionava, le giuro, ho visto miei colleghi piangere. Era qualcosa che restava nel campo dei sogni più impossibili, oltre a tutto un vaccino così efficace. Se avesse funzionato anche solo al 60% sarebbe stato comunque un successo, invece supera il 90%.
Il tanto atteso vaccino per la malaria, finalmente in distribuzione in Africa dove ogni anno muoiono milioni di persone, dà una protezione molto minore, eppure salverà milioni di vite. È questo che vorrei tanto comunicare, noi ci troviamo in una situazione che poteva essere enormemente peggiore, spero che non ci si dimentichi. Il primo anno di pandemia si diceva «rifonderemo il mondo della ricerca, mai più impreparati», ma se un po’ di memoria verrà conservata sarà molto. Guardi la lezione della Sars del 2003: non a caso nei Paesi in cui è stata tragica hanno saputo far fronte molto meglio al Covid (ad esempio in Corea del Sud, Giappone, Taiwan, Singapore, Hong Kong), perché hanno creato sistemi di sanità pubblica e sorveglianza molto più efficienti dei nostri, riuscendo a tenere bassi i decessi. Non vorrei che una volta usciti dal Covid si dicesse «l’abbiamo scampata, tra cent’anni vedremo». Non è detto, non è così.

Quale può essere lo scenario del nuovo decennio? Ad esempio l’aviaria H5N1 può dare problemi.
Il mondo interconnesso in cui viviamo crea una straordinaria facilità di diffusione di epidemie e pandemie. In pochi anni abbiamo avuto l’epidemia influenzale di H1N1 nel 2009, la Sars nel 2003, poi in Medio Oriente la Mers che purtroppo è sempre lì come un pungolo potenzialmente molto pericoloso, Zika che nelle Americhe ha avuto impatto enorme, Ebola che dai villaggi nella giungla è passata nei grandi centri urbani dell’Africa e nel 2014 per la prima volta ha esportato casi negli Usa. C’è un terreno che ci sta cambiando sotto i piedi, che fare allora? Mai più cadere nella cacofonia di voci vista contro il Covid, ma costruire coordinamenti globali di risposta alle epidemie, a livello sia di governi che di agenzie internazionali, veri e propri sistemi di intelligence planetario. Ma bisogna averli sempre pronti, come avviene per il rischio sismico e meteorologico, non aspettare l’emergenza. Purtroppo li attiviamo solo quando l’epidemia è iniziata, non abbiamo una rete di laboratori che monitorino costantemente l’infinita possibilità di spillover (passaggio di specie) futuri. È un lavoro immenso, certo, ma ormai sappiamo che questi spillover arrivano dalle regioni in cui l’uomo viene a contatto con sistemi ecologici a lui inusuali e da lì importa i virus patogeni nelle aree urbane: se cominciamo almeno a monitorare questa frontiera possiamo farcela, si tratta di costruire un sistema di sorveglianza e di intervento. C’è bisogno di investimenti enormi, ma sono investimenti che ci comprano un’assicurazione sul futuro dell’umanità.

Contro i batteri abbiamo esaurito gli antibiotici, colpa dell’abuso che ne abbiamo fatto creando nuovi "mostri" antibioticoresistenti. Come ci si prepara?

Il problema della resistenza antibiotica è enorme. Inoltre la natura è sempre un passo avanti a noi, là fuori nel mondo ci sono miliardi di virus e batteri che aspettano solo di poter fare il salto di specie. È una vera guerra, dove in prima linea combattono i medici e gli infermieri, rischiando la vita. Quello che invece nelle retrovie possiamo fare noi, epidemiologi computazionali, è appunto il lavoro di intelligence, capire quali saranno le mosse del nemico e come evitarle. Come ci si prepara? Facendo continua ricerca: guardi l’esempio dei vaccini a mRna, ci si lavorava da 30 anni, poi, appena c’è stata l’urgenza, si sono fatte cose straordinarie, basta che arrivino i finanziamenti, le energie, le menti. Le cose straordinarie vanno fatte 30 anni prima dell’emergenza, ma occorre riportare al centro della società la capacità umana di sviluppare grandi idee. In Italia da decenni abbiamo visto solo tagli.

Perché sull’andamento del Covid lei tende a essere ottimista?
L’inverno scorso in questo momento in Italia si rientrava in lockdown, c’erano oltre 3.000 persone in terapia intensiva e 30mila in ospedale, adesso grazie ai vaccini siamo a un fattore 10 di differenza negli ospedalizzati e nelle terapie intensive. Non va altrettanto bene il numero di contagi, cioè la malattia è così trasmissibile che i casi positivi sono tantissimi anche oggi, ma si finisce molto meno in ospedale.

Alla fine resterà una forma endemica?

Questo oramai è chiaro, non andremo a eradicare il Covid in un tempo vicino, diventerà endemico cioè avrà dei ritorni stagionali, ma l’importante è che il sistema immunitario a livello di popolazione faccia sì che la malattia abbia un impatto basso sul carico ospedaliero. Poi naturalmente vedremo quanto questo virus cercherà di sfuggire ai vaccini e all’immunità pregressa con altre varianti, o magari alla lunga potremo sperare in una eradicazione, chissà. Se non avviene non è un problema, abbiamo tante malattie endemiche che riusciamo a controllare bene.

Sono in arrivo anche le pillole antivirali, armi terapeutiche nuove.

Ecco un altro messaggio chiaro da dare: nel presente non cambiano nulla sulla traiettoria dell’epidemia, perché in mano abbiamo solo le dichiarazioni delle case farmaceutiche, i dati non sono ancora disponibili. Una cosa sono i test clinici e altro è capire quanto realmente funzionano in quantità importanti, poi bisognerà valutare i problemi di produzione, gli effetti collaterali... Insomma, nell’inverno 2021-2022 non avranno un grande impatto, però aprono prospettive di buon auspicio se guardiamo al futuro: se funzioneranno, cambierà l’approccio terapeutico al Covid 19 e avremo più armi per combatterlo. Sono notizie che accogliamo con grande entusiasmo, ma in questo momento la vaccinazione rimane l’arma principale, insieme all’attenzione nei comportamenti, che è altrettanto fondamentale.

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