venerdì 3 aprile 2020
Appello dell'Unhcr: "Stop agli scontri. garantire a tutti il diritto alle cure"
Un centro di detenzione per migranti in Libia

Un centro di detenzione per migranti in Libia - Immagine d'archivio

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C'è un nemico in più, in Libia. Ma neanche la pandemia riesce a fermare il conflitto e le violazioni dei diritti umani. La prima vittima di Coronavirus è stata ufficializzata poche ore fa. Le autorità di Tripoli hanno confermato che si tratta di una donna di 85 anni. Il Centro nazionale istituito per fronteggiare il contagio aveva ufficializzato il primo ricovero lo scorso 24 marzo. Che siano trascorsi quasi dieci giorni dal primo caso reso noto fino al primo decesso, purtroppo fa temere che i numeri finora forniti non siano altro che la punta dell’iceberg. Il ministero della salute parla di 10 persone contagiate, un numero che a diversi osservatori internazionali pare irrealistico. Nel Paese, del resto, il prolungarsi del conflitto aveva già fatto collassare ben prima del Covid il già fragile sistema sanitario. E i dati forniti da altri stati africani, alcuni dei quali confinanti con la Libia, lasciano ipotizzare che a Tripoli per il momento il contagio sia ampiamente sottostimato anche a causa della difficoltà delle autorità locali a reperire informazioni tracciabili.
Gli ultimi dati del Centro di controllo delle malattie dell’Unione Africana (Cdc Africa) parlano di 284 morti e di 50 Paesi del continente colpiti dalla pandemia con un totale di almeno 7.028 casi di infezione (561 le persone guarite). L’Algeria, con 83 decessi confermati risulta il primo Paese per numero di vittime, mentre il Sudafrica con cinque decessi ma 1.462 casi confermati di coronavirus resta il più colpito. Ci sono ci sono altri 27 Paesi del continente in cui si registrano decessi, tra cui Egitto, Marocco, Tunisia, Mali, per stare ai più vicini a Tripoli.
Perciò Unhcr-Acrnur, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ha lanciato un nuovo allarma. Da aprile dell’anno scorso più di 300 civili sono rimasti uccisi e altre 150.000 persone sono state costrette alla fuga. “Nonostante l’accordo provvisorio di tregua umanitaria, nell’arco dell’ultima settimana - si legge in una nota - gli scontri si sono intensificati in modo significativo. Inoltre, il deteriorarsi della situazione ha messo a rischio le possibilità di decine di migliaia di sfollati di fare ritorno in condizioni sicure verso le proprie aree di origine”. Nel frattempo, le autorità “hanno confermato che attualmente in Libia si registrano 10 casi di COVID-19 e un decesso, suscitando nuovi timori in merito alle capacità di risposta dei servizi sanitari del Paese già al collasso”.
La vita quotidiana delle persone sta divenendo impossibile. “Molti, tra cui sfollati libici, rifugiati e richiedenti asilo, non hanno un alloggio adeguato e vivono in condizioni di sovraffollamento con accesso limitato a servizi igienico-sanitari. I prezzi di affitti, alimenti e carburanti hanno subito un’impennata ed è necessario far fronte a serie difficoltà per soddisfare le esigenze essenziali”, ha detto Jean-Paul Cavalieri, capo del’ufficio dell’Unhcr-Acnur in Libia.
L’agenzia Onu sta fornendo generatori, ambulanze, alloggi container, e cliniche da campo a sostegno dei servizi di assistenza sanitaria locali. Ale autorità libiche viene chiesto di “assicurare l’accesso e l’inclusione di tutti i gruppi che compongono la popolazione presente in Libia ai piani e alle attività di sorveglianza, preparazione e risposta sanitaria”. L'Onu ha rivolto un appello al cessate il fuoco in Libia per concentrare gli sforzi nella lotta al Coronavirus. Finora senza risultati.

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