domenica 9 ottobre 2022
Ripartiamo dall’appello del Papa, sì a una grande manifestazione. «Francesco ha chiesto a Putin di fermarsi per il bene del suo popolo e a Zelensky di aprire al negoziato»
Andrea Riccardi: «Chiedere il dialogo non è utopia»
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Una «profonda preoccupazione » per il rischio nucleare. La necessità vitale di «riaprire il dialogo per il bene degli ucraini, dei russi, degli europei ». E l’opportunità di una «grande manifestazione apartitica per dare voce al diffuso sentire popolare che esprime desiderio di pace». Per Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, bisogna ripartire dall’appello del Papa ai presidenti russo e ucraino lanciato domenica scorsa.

«Viviamo una grande, profonda preoccupazione. L’Ucraina è dilaniata e 6 o 7 milioni di suoi cittadini sono fuggiti dalla loro patria. Anche i giovani russi soffrono per la guerra. Ma c’è dell’altro: abbiamo la sensazione, e speriamo sia solo una sensazione, di essere sull’abisso di uno scontro nucleare. Mai siamo stati in questa situazione. Ricordo, ero piccolo, la vicenda di Cuba, Kruscev contro Kennedy. Ma era una situazione molto diversa. Oggi questo rischio nucleare sembra permanente, viene evocato, minacciato. Molti dicono che è solo un fantasma, ma chi può esserne certo? Mi chiedo se stiamo costruendo una prospettiva futura per l’Ucraina, la Russia, l’Europa e per il mondo. Oppure ci facciamo trascinare dagli avvenimenti in cui nessuno ha un disegno, ma ci troviamo in una catena perversa di azione e reazione. Questa è la grande e profonda preoccupazione condivisa da tanti in Italia e nel mondo».

Come si può dare alla politica e alla diplomazia un segnale forte perché tenti di mettere al tavolo della pace le parti in causa?
Abbiamo abolito dal nostro orizzonte la parola 'pace'. Io conosco tutte le difficoltà, la durezza russa, il decreto ucraino contro chi negozia. È tutto molto inasprito. Ma credo che bisogna avere come prospettiva futura un 'cessate il fuoco' e una sistemazione della situazione. Mi è sembrato molto importante l’appello del Papa di domenica scorsa perché riconosceva con forza cose che sento, a partire dalla violenza dell’invasione russa. Al presidente russo papa Francesco ha chiesto per il bene del suo popolo di intraprendere una via di pace. Al presidente ucraino di aprirsi al dialogo. Una posizione che può sembrare utopica, ma è l’obiettivo cui dobbiamo guardare, al di là del fumo della guerra. Tenendo fisso lo sguardo a questo obiettivo, possiamo cercare nel presente vie percorribili che ci portino lontano da una logica di guerra e dall’abisso del conflitto nucleare. Ripartiamo da quell’Angelus.

Un ipotetico tavolo della pace dovrà accogliere assieme a Putin e Zelensky anche l’Onu, l’Europa, l’America, la Cina. Cosa può fare l’Italia?
Oggi è difficile una mediazione. Tanto difficile quanto necessaria. Non so figurarmi per quali vie, né tanto meno il ruolo dell’Italia. Ma quello che so è che ci vuole una mappa concettuale con cui affrontare questi problemi. Bisogna ridare un ruolo alla politica internazionale. E qui ognuno deve giocare il suo ruolo, dagli Stati Uniti ala Francia, dall’Unione Europea alla Cina. Bisogna capovolgere la visione, partire dall’obiettivo che bisogna far finire questo conflitto. Ora la diplomazia mi sembra impacciata, ma bisogna creare una coscienza e una cultura di pace perché da molte parti del mondo c’è questa volontà. È tra la gente.

Chi chiede la pace però viene spesso accusato di volersi arrendere a Putin.
Pace non è assolutamente condividere il disegno russo e abbandonare gli ucraini. Sia chiaro. L’Ucraina ha bisogno di pace, ma anche i popoli della Russia e dell’Europa. Vorrei che in maniera forte, ma sobria e senza protagonismi, si esprimesse quella volontà di pace che è al fondo della nostra società, è una volontà popolare. Per legittimare nuovamente e rinnovare un impegno in direzione della pace. È il senso delle parole pronunciate dal presidente Sergio Mattarella il 4 ottobre ad Assisi.

Una volontà popolare diffusa come potrebbe esprimersi? In una grande manifestazione di piazza?
Io credo che dobbiamo ritrovare un linguaggio forte - non avventuristico, non provocatorio - e serio. Una grande manifestazione popolare apartitica, che rappresenti il sentire della gente, quella preoccupazione che oggi tante persone esprimono in maniera individuale. Ma questo sentimento di fondo esiste, tra preoccupazione e domanda di pace. E si è espresso, ad esempio, nella generosa accoglienza dei profughi ucraini. Di certo questo momento futuro dovrà basarsi sul sentimento espresso e messo in comune, cui dobbiamo dare voce. Tanti sentire individuali devono trovare una piattaforma, un’espressione comune. Manifestare significa misurare i propri sentimenti con la realtà e coi problemi, ma anche unirsi agli altri.

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