domenica 6 maggio 2018
il vescovo Zedda contro la produzione di bombe. Mobilitazione in città: «Al Sulcis un altro futuro»
Una delle numerose manifestazioni contro la fabbrica delle armi

Una delle numerose manifestazioni contro la fabbrica delle armi

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«Nessuno di noi giustificherebbe mai che armi prodotte altrove fossero mandate a bombardare le nostre case, le nostre scuole, i nostri ospedali, le nostre chiese, la nostra gente. Ma le popolazioni dello Yemen non hanno forse i nostri stessi diritti?». Giovanni Paolo Zedda, vescovo di Iglesias, non ci gira intorno. Sul caso delle bombe prodotte nella sua diocesi (dall’azienda tedesca Rwm, ndr) e vendute ai sauditi che da oltre tre anni martellano la popolazione dello Yemen ha scritto un messaggio che strappa ogni alibi.

«Non si può omologare la produzione di beni necessari per la vita con quella che sicuramente produce morte. Tale è il caso delle armi che – è purtroppo certo – vengono prodotte nel nostro territorio e usate per una guerra che ha causato e continua a generare migliaia di morti». Gli ordigni della Rwm non possono essere considerati uno strumento di sostentamento per uno «sviluppo integrale umano, sociale e cristiano del nostro territorio». Le parole del presule, firmate con il Consiglio presbiterale, arrivano mentre a Iglesias si sta svolgendo una nuova mobilitazione popolare che invoca un piano di riconversione dello stabilimento. Più volte l’azienda di proprietà della tedesca Rheinmetall, spalleggiata da Confindustria e dai tre sindacati confederali, ha sostenuto che l’unica alternativa è chiudere, lasciando gli oltre 300 lavoratori (in realtà 168 tra diretti e indotto secondo dati Inail) senza salario. Un ricatto che monsignor Zedda respinge: «La gravissima situazione economico-sociale non può legittimare qualsiasi attività economica e produttiva, senza che ne valutiamo responsabilmente la sostenibilità, la dignità e l’attenzione alla tutela dei diritti di ogni persona». Perciò la diocesi intende «sollecitare in ogni modo le migliori risorse della nostra terra: la società civile in ogni sua componente, le autorità istituzionali comunali, regionale e nazionale, l’Università e la scuola, il mondo imprenditoriale ed economico, le associazioni dei lavoratori», cercando le convergenze «più opportune perché si pongano in atto iniziative e politiche volte a una inversione di tendenza capace di generare un futuro di speranza».

Non solo una denuncia, quindi, ma l’indicazione di una via alternativa che faccia uscire il Sulcis Inglesiente dal vicolo cieco di una industrializzazione che ha offerto solo tregue momentanee tra una crisi e l’altra, quando occorrerebbe «una inversione di tendenza capace di generare un futuro di speranza».

L’“economia che uccide”, come la definisce papa Francesco, non è solo quella delle bombe, «ma di chi affama e umilia famiglie e interi territori», dice Carlo Cefaloni che con Città Nuova, il Movimento dei Focolari e tante realtà locali, da tre anni guida una battaglia per innescare consapevolezza e progetti di sviluppo. «Fermarsi a denunciare la produzione bellica – aggiunge – senza mettere in discussione e ribaltare il meccanismo del ricatto del lavoro, che acceca lo sguardo e genera il rancore, vuol dire accettare una logica umanitaria astratta».

Il testo inviato dal vescovo è suonato come un incoraggiamento alla platea intervenuta per la giornata dedicata a Iglesias al rapporto tra giornalismo e pace. «È nota a tutti la gravissima situazione dell’occupazione nella quale ci troviamo. I nostri paesi, le nostre parrocchie conoscono bene – ribadisce Giovanni Paolo Zedda – gli effetti preoccupanti della mancanza di lavoro: giovani costretti ad emigrare; cassintegrati impossibilitati a nuove prospettive di assunzione; situazioni che divengono drammatiche nelle famiglie». La paura di arrivare a fine mese ha finito per essere il grande alleato dei mercanti di morte. Una spirale che deve essere spezzata con l’ambizione di un «lavoro dignitoso» e la coerenza con i valori «che fondano la nostra fede e la nostra convivenza civile». Lo dice, insiste il presule, «la parola di Gesù Cristo e l’insegnamento della Chiesa, ribadito con forza da papa Francesco». Ma lo sancisce anche «la nostra legge fondante, la Costituzione (art. 11: 'l’Italia ripudia la guerra') e le norme italiane», oltre ai Trattati internazionali, tutti elencati e richiamati nell’appello della Chiesa di Iglesias.

A quanti fanno spallucce, scaricando le colpe sulla comunità internazionale, Zedda replica riconoscendo che «si tratta di un problema complesso e collegato a responsabilità che ci superano. Ma non ci è lecito ignorarlo».

Nuovi test, esplosivi, esalazioni. Così Rwm pianifica l'espansione

L’inquinamento della falda? Non c’è da preoccuparsi. Il nuovo gigantesco poligono? Servirà a testare ordigni sconosciuti, ma si trova in un’area disabitata. Vi è il rischio che possano sprigionarsi sostanze nocive? «Difficile». I documenti depositati da Rwm per ottenere il via libera al nuovo “campo di prova” dovrebbero rassicurare. Ma la lettura dei fascicoli visionati da Avvenire, al contrario, suscita molti interrogativi.

Il primo riguarda l’entità di esplosivo da impiegare nei test presso il 'Nuovo Campo 140', la cui realizzazione deve ancora essere autorizzata. Nella relazione tecnica allegata al progetto originale si precisa che «la quantità massima prevista è di 10 kg». Nella perizia per le verifiche idrogeologiche sottoposta alla Regione si parla di «12 kg». Se si trattasse di fuochi pirotecnici non ci sarebbe da allarmarsi, ma due chili in più per ordigni militari non sono polvere per mortaretti. La natura del materiale esplodente che verrebbe messo in prova non è ancora chiara. Paragrafo 9 della Relazione tecnica datata 24 novembre 2016: «Test di nuovi esplosivi o manufatti esplosivi per uso civile e militare non ancora riconosciuti e classificati». In altre parole, gli effetti per quanto preventivabili con i moderni sistemi di calcolo, non sono del tutto noti. Meno di due anni dopo, il 9 febbraio 2018, viene depositato il Documento di esposizione del piano di indagine. I tecnici di una società incaricata dalla Rwm spiegano che «le tipologie di contaminanti presenti, in particolar modo gli Idrocarburi Totali, fanno ipotizzare un percorso di migrazione della frazione solubile verso la zona satura con la conseguente veicolazione in falda del contaminante». Una serie di fattori ambientali concomitanti, assicurano gli analisti, rendono «difficilmente disponibili» i veleni «per la migrazione». Se però «si possono escludere» contaminazioni «verso il suolo profondo», gli studi non escludono «una migrazione sul suolo superficiale attraverso trasporto aereo operato per mezzo del vento». La novità più significativa del nuovo poligono, nei progetti tre volte più grande di quello in uso, «sembrerebbe consista nel non convogliamento delle emissioni in atmosfera e nella maggior produzione di inquinamento acustico e di ceneri», lamentano gli ambientalisti di Italia Nostra.

Contro la concessione di nuove autorizzazioni a Rwm è intervenuto ieri un peso massimo della politica isolana. «Stiamo lottando da anni per chiudere i poligoni militari dello Stato – ha polemicamente chiesto l’ex governatore Renato Soru (Pd) – e adesso vogliamo consentire l’ampliamento di uno privato?». E pensare che lo stabilimento Rwm veniva portato a esempio di riconversione: «Qui si producevano esplosivi per le miniere – ha ricordato l’europarlamentare –, ma poi si è deciso di produrre ordigni che uccidono. Più che una riconversione è stato il tradimento della nostra storia, di un popolo pacifico costretto da altri interessi e dal ricatto occupazionale a produrre per guerre che uccidono civili incolpevoli».

Dall’interno dello stabilimento non trapelano voci. I lavoratori – poco meno di 170 secondo l’Inail, di cui 80 dipendenti diretti – si sono imposti la consegna del silenzio. Le crepe, però, ci sono. Attilio accetta di parlare, ma non al telefono. Non si fida. Si fa trovare all’alba nei pressi di una stazione di servizio: «La paga è buona e il lavoro è a ciclo continuo. Però mi sento preso in giro». Perché? «All’inizio ci dicevano che lavoravamo per la Nato, per ammodernare i nostri arsenali e quelli dei nostri alleati». Ma loro – «i tedeschi », come chiama lui i manager italiani dell’azienda che ha la casa madre in Germania – «ci dicevano che le nostre bombe venivano usate solo per sconfiggere quelli dello Stato Islamico, i terroristi, e io dentro di me mi sentivo anche orgoglioso di dare un contributo. Poi, maledizione, siete arrivati voi». I giornali, i preti, i pacifisti «e ci avete fatto vedere una storia diversa». Attilio è un sardo fiero. Dopo anni di Germania è tornato a casa, dai suoi figli. Ha un’opinione sui conflitti e la vuol tenere per sé: «Se dico che la guerra fa schifo, dovrei avere il coraggio di licenziarmi domani mattina. Se vi dico che non mi importa dei civili ammazzati, non potrei più parlare ai miei figli. Però se mi date un modo per trovare un’alternativa io ai tedeschi dico auf Wiedersehen, arrivederci e tante grazie». «Non chiamateci assassini – dice andandosene via, l’operaio –. Se devo andare all’inferno ci andrò, ma ai miei figli voglio vederli mangiare».

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