martedì 2 ottobre 2018
Conclusa la ricognizione effettuata sui corpi del vescovo ambrosiano e dei due martiri, uno ucciso a frustate, l'altro decapitato. E il pastore aveva la spalla dolorante come scriveva alla sorella
Si procede con la Tac

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Il volto di sant’Ambrogio? Forse sì, è davvero come nel ritratto che compare nel mosaico della cappella di San Vittore in Ciel d’Oro, nella Basilica intitolata al vescovo e patrono di Milano. E i dolori alla spalla, e le difficoltà nei movimenti, dei quali sappiamo dalle lettere alla sorella Marcellina? Si spiegano con la brutta frattura alla clavicola destra, subita forse da ragazzo, di cui ci "parlano" i suoi resti.

Gervaso e Protaso, invece? Sì, l’esame dei loro scheletri autorizza a pensare che fossero fratelli, forse gemelli. E che siano stati martirizzati in giovane età. Il primo ucciso a colpi di frusta, il secondo decapitato, dice la tradizione. Ora possiamo dirlo anche noi. Con il conforto della scienza. Grazie ai primi risultati della ricognizione effettuata sui corpi dei tre santi maggiori della Chiesa ambrosiana, custoditi dalla fine del IV secolo nella Basilica martirum voluta dallo stesso Ambrogio, oggi universalmente conosciuta come Basilica di Sant'Ambrogio.

Quei primi esiti sono stati illustrati ieri nella Sala capitolare della Basilica da Cristina Cattaneo, ordinario di Medicina legale e direttrice del Centro LabAnOf dell’Università Statale di Milano, coordinatrice della campagna di studi multidisciplinare che in questi mesi ha trasformato la cripta in laboratorio. Studi ancora in corso – quelli condotti dalla Statale e dall’Istituto ortopedico Galeazzi – i cui risultati verranno presentati in un convegno il 30 novembre, giorno del battesimo di Ambrogio. Un mese prima, il 30 ottobre, sarà l’arcivescovo Mario Delpini a presiedere in Basilica il rito canonico di chiusura dell’urna dei santi.

Ed è stato un messaggio dello stesso Delpini, letto dal suo portavoce, don Walter Magni, a ricordare senso e significato di questa indagine scientifica, promossa dalla Basilica col patrocinio della diocesi. «Questa cura per reliquie di valore unico per la devozione della Chiesa ambrosiana e della Chiesa universale – ha scritto l’arcivescovo – è un esercizio significativo di alleanza tra scienza/scienze e comunità cristiana. Infatti la cura e la devozione che si esprime per i santi anche venerando le loro reliquie aiuta i cristiani a non dimenticare mai che il cristianesimo è una fede costruita sull’incarnazione del Verbo di Dio in Gesù di Nazaret: la dimensione storica per il cristianesimo è irrinunciabile».

Il gruppo di ricerca ha eseguito la ricognizione e l’esame antropologico dei resti dei tre santi, la valutazione dello stato di conservazione e le indagini radiografiche e Tac degli scheletri, un esame del sarcofago in porfido che ha contenuto i santi fino alla metà dell’800, oltre a ricerche di archivio e storiografiche.

Alle monache benedettine dell’Isola di San Giulio d’Orta (Novara) è stato affidato il restauro dei preziosi paramenti dei tre santi; alle suore del Monastero di Viboldone in San Giuliano Milanese, i restauri dei documenti cartacei. Dalle analisi risulta che le ossa "stanno bene" e non presentano segni di degradazione attiva. Grazie all’esame eseguito con la Tac, sarà inoltre possibile la ricostruzione tridimensionale dei loro volti.

I resti di Ambrogio sono quelli di un uomo sano di circa 60 anni, alto un metro e 70, con una frattura alla clavicola destra e una marcata asimmetria del volto sotto le orbite, forse legata ad un evento traumatico.

Gli scheletri di Gervaso e Protaso dicono di due persone giovani (fra i 23 e i 27 anni), robuste, alte più di un metro e 80, con simili difetti congeniti alle vertebre. L’uno presenta segni di decapitazione e peculiari lesioni alle caviglie, forse da costrizione forzata; l’altro lesioni da difesa e fratture costali, oltre a segni sospetti di tubercolosi (ancora in corso di studio). Hanno entrambi fratture guarite di vecchia data su gambe e piedi, compatibili con la loro professione di militari.

«Noi siamo i custodi, non i padroni, di un grande tesoro per i nostri tempi e per le generazioni future», ha detto l’abate di Sant’Ambrogio, monsignor Carlo Faccendini: custodi di una memoria che «si riverbera ai nostri giorni», di «una storia scritta in pagine di fede e di devozione, ma anche d’arte e di scienza». In dialogo fecondo.

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