venerdì 20 aprile 2018
Nell'anniversario della tragedia da 1.129 morti in Bangladesh, fabbriche più sicure grazie all'accordo sottoscritto con la campagna Abiti puliti. Ma grandi marchi ancora rifiutano la trasparenza
Cinque anni fa il crollo del Rana Plaza, il tessile non è ancora «pulito»
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Il 24 aprile 2013 a Savar, alla periferia di Dacca, capitale del Bangladesh, migliaia di operai tessili evacuati dal Rana Plaza per la comparsa di crepe venivano fatti rientrare al lavoro. L'edificio di otto piani ospitava diversi stabilimenti tessili assoldati da prestigiosi marchi occidentali di abbigliamento.

Il palazzo sarebbe crollato dopo poco, provocando un bilancio catastrofico di 1.129 morti e 2.515 feriti, molti dei quali tuttora disabili. L'ondata di indignazione, provocata anche dalle responsabilità morali delle griffe che si servivano dello stabilimento, a maggio 2013 permise alla Clean Clothes Campaign (in Italia Abiti puliti) formata da ong e sindacati, a spingere 220 aziende tessili bengalesi a sottoscrivere l'Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici.

Un accordo quinquennale che finalmente, grazie alle ispezioni indipendenti e alla formazione dei lavoratori, ha contribuito in modo significativo a migliorare la sicurezza sul lavoro.

Al 1° marzo 2018 infatti l'85% degli interventi riparatori segnalati durante le ispezioni, in tema di sicurezza, sono stati completati. Gli ispettori indipendenti hanno esaminato più di 1.900 fabbriche e 97 mila situazioni di rischio individuate, per pericolo di incendio, problemi elettrici e strutturali, sono stati corretti. Grazie all'accordo del 2013, 183 reclami dei lavoratori sono stati risolti. Ma la strada per assicurare sicurezza sul lavoro e un sistema infortunistico e previdenziale è ancora lunga.

Ora è alla firma un'estensione di un altro Accordo di transizione di altri cinque anni , un nuovo patto che, nell'ambito del meccanismo legalmente vincolante, impegna i marchi internazionali a versare 2,3 milioni di dollari per la messa in sicurezza di oltre 150 fabbriche che lavorano per le griffe. L'Accordo di transizione è stato firmato da più di 140 marchi ed estende le protezioni del primo accordo fino a maggio 2021, in attesa di una regolamentazione legislativa nazionale. Ci sono però alcuni marchi che non hanno ancora rinnovato la loro adesione: tra questi c'è l'italiana Teddy S.p.A, poi l'americana Abercrombie & Fitch, Sainsbury's e Gekas Ullared.

Ma ci sono ancora marchi che non hanno mai sottoscritto nemmeno la prima versione dell'Accordo e sono quindi restii ad aprire gli stabilimenti a ispezioni indipendenti. Ritengono sufficiente infatti il controllo di ispettori alle loro dipendenze: tra questi c'è VF Corporation (multinazionale statunitense che possiede griffe del calibro di The North Face, Timberland, Lee, Wrangler), poi Gap, Walmart, la catena francese dello sport Decathlon, New Yorker. La Clean Clothes Campaign preme per far entrare nell'Accordo di transizione anche le fabbriche tessili che non producono abbigliamento.

Anche la multinazionale svedese Ikea si serve infatti degli stabilimenti bengalesi. L'Accordo 2018 include anche disposizioni migliorate per il risarcimento dei lavoratori infortunati e per la libertà di associazione sindacale. «Sollecitiamo il governo del Bangladesh - dichiara Deborah Lucchetti, portavoce di Abiti puliti - con il sostegno dell'Organizzazione internazionale del lavoro e dei marchi che si riforniscono nel paese asiatico, a rendere giustizia a tutti i lavoratori colpiti da incidenti, istituendo un sistema permanente di assicurazione contro gli infortuni secondo gli standard internazionali. E a individuare una soluzione transitoria per risarcire i lavoratori che attendono da troppo tempo equi risarcimenti».

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