sabato 28 giugno 2014
​Decreto dell’arcivescovo Pennisi: obbligatorio statuto anti-cosche. «La Chiesa deve promuovere la legalità e combattere il crimine». Le iniziative di Romeo e di Montenegro.
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La Chiesa deve fare il primo passo anche nella lotta alla mafia. Troppo spesso negli organismi più popolari, come le confraternite, si sono insinuati personaggi discutibili, legali a filo doppio con ambienti criminali. Ma nella Chiesa non c’è posto per queste ambiguità e va scritto a chiare lettere. «Ho emesso un decreto con cui obbligo tutte le confraternite dell’arcidiocesi a inserire nello statuto che non possono far parte delle confraternite gli appartenenti ad associazioni mafiose», è l’annuncio che Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale, ha dato in occasione della chiusura dell’anno accademico del Centro studi culturale del Parlamento della Legalità. «La Chiesa come comunità inserita nella storia che esercita una responsabilità verso l’intera società non può non promuovere la legalità connessa con la moralità e contrastare fenomeni devianti come la mafia e le sue conseguenze: il pizzo, l’usura, lo spaccio della droga, i guadagni illeciti – aggiunge Pennisi –. È un segno positivo l’attuale sensibilità che la Chiesa italiana, a vari livelli, mostra nei confronti del fenomeno mafioso. È una sensibilità che si esprime nella denuncia dal pulpito e in una serie di iniziative concrete volte a creare un costume e una mentalità alternativi a quella della cultura in cui alligna la mafia».  Il problema delle infiltrazioni mafiose nelle confraternite e delle organizzazioni delle feste patronali è ancora una realtà presente in Sicilia. Alcune settimane fa, per esempio, l’arcidiocesi di Palermo, guidata dal cardinale Paolo Romeo, ha dovuto dichiarare decaduto Stefano Comandè, presunto boss arrestato nel corso di un’operazione antimafia, dal ruolo di superiore e di confrate della Confraternita delle Anime sante nella parrocchia Madonna di Lourdes di piazza Ingastone. Allo stesso tempo, la confraternita è stata sospesa a tempo indeterminato da ogni sua attività ordinaria e straordinaria, temendo che sia diventata uno strumento di controllo e pressione del territorio.  Le recenti parole di Papa Francesco sulla condizione dei mafiosi che sono 'scomunicati', cioè si pongono al di fuori del popolo di Dio, continuano a generare effetti positivi e si inseriscono nella strada già intrapresa da decenni dall’episcopato e dal clero siciliano, duramente colpito dalla violenza mafiosa. Don Pino Puglisi, beatificato l’anno scorso, fu ucciso proprio per ordine di Cosa nostra e per questo è stato considerato martire della Chiesa. «La lotta alla mafia, il contrasto alle piaghe del pizzo e dell’usura e la moralizzazione della vita pubblica – aggiunge Pennisi – passa attraverso un rinnovato impegno educativo che porti ad un cambiamento della mentalità, che deve iniziare fin da bambini. Per contrastare questi fenomeni criminali è necessaria una mobilitazione delle coscienze che, insieme ad un’efficace azione istituzionale e ad un ordinato sviluppo economico, può frenare e ridurre il fenomeno criminoso». In Sicilia l’educazione alla legalità e alla socialità, cioè al bene comune, «deve essere una priorità», osserva l’arcivescovo di Monreale. Necessario educare i giovani a un cambiamento di mentalità. Da qui l’iniziativa dell’arcivescovo di Agrigento, monsignor Francesco Montenegro, un paio di mesi fa per 'Giovaninfesta', che ha invitato tutti i ragazzi presenti a saltare e gridare «chi non salta mafioso è». Don Luigi Sturzo sosteneva che «per combattere le varie mafie si trattava di comprendere questo fenomeno negativo non innanzitutto e solo come problema di sottosviluppo  economico, ma come un problema culturale, morale e religioso».
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