mercoledì 7 febbraio 2018
Inizia oggi il viaggio lungo 50 anni della nostra storia. È la storia di «Avvenire», che taglierà il traguardo il prossimo 4 dicembre
Paolo VI (Foto Merisio)

Paolo VI (Foto Merisio)

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Inizia oggi il viaggio lungo 50 anni della nostra storia. È la storia di «Avvenire», che taglierà il traguardo il prossimo 4 dicembre, e insieme del mondo che su queste pagine è stato raccontato a partire da un punto di vista originale e inconfondibile. È l’impegno che consegnò come una missione il beato Paolo VI quando volle la nascita di un quotidiano nazionale di tutti i cattolici italiani, punto di incontro vivo tra le loro molteplici voci e insieme luogo di dialogo con le diverse anime della società. «50 anni da rileggere» ripercorrerà con una o due pagine ogni mercoledì questa avventura informativa più che mai affacciata sul futuro.

Ed eccolo finalmente in edicola, Avvenire, quotidiano nazionale in un’Italia che di quotidiani diffusi davvero in tutto il suo territorio, allora, non ne aveva. Un quotidiano di e per tutti i cattolici italiani; ma quanti lo avevano voluto sul serio?
Esordio non facile, quel 4 dicembre 1968.

Avvenire raccoglie l’eredità del bolognese L’Avvenire d’Italia e del milanese L’Italia. La sede è a Milano, con una redazione a Roma. Il direttore, Leonardo Valente, scrive: «Sceglieremo di essere uno strumento comune di ricerca, di proposta e di partecipazione che tenga conto con umiltà della pluralità reale del mondo cattolico». Un mondo plurale, spinto e strattonato di qua e di là, tanto da far scrivere a Témoignage Chrétien: «Questo nuovo dinosauro avrà, apparentemente, assai poca possibilità di muoversi».
Leonardo Valente, dunque. Ex Popolo, Giorno e Rai di Milano, 39 anni; come vice Gian Luigi Degli Esposti, 42 anni, dal Mulino di Bologna; vice a Roma Angelo Narducci, già al Popolo e alla Gazzetta del popolo. C’è anche un Comitato editoriale con Giuseppe Lazzati dell’Università Cattolica, Vittorino Veronese del Banco di Roma e Luigi Pedrazzi del Mulino (in via riservata, anche il gesuita padre Tucci e Guglielmo Zucconi, già candidato per la direzione).

Il primo numero apre con gli scontri tra braccianti e polizia ad Avola, nel Siracusano: l’attenzione al mondo del lavoro, alle dure condizioni di molte fabbriche, alle proteste operaie e infine allo Statuto dei lavoratori sarà una costante del primo anno di vita. Quel 4 dicembre si legge della conferenza di pace di Parigi (guerra nel Vietnam); Angelo Pittau scrive da Saigon e Vittorio Magli dal Biafra. Mario Gozzini apre le danze sul post-Concilio: «Troppo pochi i consigli presbiterali. Remore psicologiche ad accettare il dialogo». Il motu proprio Ecclesiae Sanctae rendeva obbligatori i consigli presbiterali e raccomandava vivamente i consigli pastorali: «Bisogna francamente riconoscere che le sperimentazioni non sono andate molto avanti». Gozzini doveva aver ragione, ma non era un bel metodo per farsi benvolere dalle gerarchie. Sul numero 1 c’è una sola firma presente anche oggi, mezzo secolo dopo: quella di Cesare Cavalleri, che nella rubrica "Fuori video" scrive di televisione stroncando lo Sherlock Holmes («un tantino ridicolo») di Anton e Morandi, severo nei confronti di Nando Gazzolo, che «non è riuscito a essere né saccente, né distaccato, né freddo, né sicuro di sé». In coda si presenta Milan-Celtic di Coppa Campioni.

L’editrice Nei si presenta riconoscendo a se stessa «una responsabilità grande e delicata nei confronti della nostra comunità ecclesiale e civile». Eufemismo. La sensazione è che Avvenire, in quel dicembre 1968, lo volessero solo Paolo VI e pochi altri. A Milano, il cardinale Colombo aveva fatto di tutto per non far confluire la sua Italia, dai conti in ordine, con L’Avvenire d’Italia con un piede e mezzo nel baratro. Il commiato, sull’ultimo numero dell’Italia il 1° dicembre, per la penna del direttore, monsignor Carlo Chiavazza, parla assai più di sofferenza che di speranza e gioia. Ma anche a Bologna, nonostante i conti in profondo rosso, erano stati a lungo riluttanti nel chiudere con una lunga e gloriosa tradizione, almeno finché Poma non subentra a Lercaro. E la Cei? Il presidente Urbani, patriarca di Venezia, a un certo punto sembra spaventatissimo dall’impegno economico e chiude la porta. Paolo VI deve inviare il segretario della Cei, monsignor Pangrazio, a Venezia; al che Urbani china il capo e obbedisce.

Avvenire non nasconde gli infausti auspici sotto cui nasce. Ma fa raccontare il retroscena a Le Monde il 4 dicembre: «Valente e Degli Esposti sono già riusciti, in ogni caso, in un punto: fare convergere sull’impresa un’impressionante varietà di ostilità. I loro avversari si trovano in tutti gli ambienti cattolici: le "vecchie glorie" (...); alcuni vescovi, che si lusingano di avere fogli locali o regionali (...); i notabili provinciali (...); i tradizionalisti, che giudicano che alcuni redattori dell’Avvenire odorino d’eresia; tutti coloro che paventano l’assenza di controllo dell’episcopato contro la contaminazione dello spirito del mondo; i militanti del dissenso e dei gruppi spontanei che irridono al patrocinio diretto della Santa Sede». Belle premesse davvero quella mattina per Avvenire, 130mila copie di tiratura, nato tra il «profondo dolore» di Lercaro e la «ferma contrarietà» di Colombo. Questa era la coscienza nazionale di una Chiesa italiana a cui Paolo VI impose, di fatto, un quotidiano unico e una voce unitaria.

Leonardo Valente tiene duro per meno di anno e il 18 ottobre 1969 torna in Rai, da cui prudentemente si era messo in aspettativa. Gli subentra Angelo Narducci. Tenendo duro per dieci anni. Quanto a noi, Le Monde permettendo, siamo ancora qui, più vispi che mai.

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