mercoledì 7 novembre 2018
Passo storico dell'industria italiana: l'operazione dà al Lingotto uno slancio internazionale. Successo targato Marchionne
La sede di Auburn Hills, quartier generale di Fca negli Stati Uniti, alle porte di Detroit (Ansa)

La sede di Auburn Hills, quartier generale di Fca negli Stati Uniti, alle porte di Detroit (Ansa)

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L’anno 2014 si apre, come scrive in prima pagina Avvenire il 3 gennaio, con un «passo storico» per l’industria italiana, senza dubbio il più importante dal dopoguerra. Nessuna enfasi sul nostro giornale, toni asciutti e analisi ponderate. Il titolo riporta il dato di cronaca più significativo della giornata: «Fiat vola in Borsa dopo il sì per Chrysler». Questa la sintesi delle ore che segnano la nascita di Fca: «"È un giorno storico" scrivono Sergio Marchionne e John Elkann nella lettera inviata ai 300mila dipendenti della Fiat e della Chrysler per annunciare l’imminente fusione delle due società. Gli investitori non hanno ricevuto lettere, ma hanno letto i termini del contratto tra la società degli Agnelli e il fondo Veba: la Fiat compra la Chrysler spendendo il minimo indispensabile, e allora non può sorprendere il +16% segnato ieri in Borsa».

A pagina 3 Maurizio Carucci raccoglie inconsapevolmente una profezia che, quattro anni dopo, si rivelerà corretta ma in modo imprevisto e tragico: «L’operazione Chrysler "incorona" la rivoluzione di Sergio Marchionne e conferma la sua reputazione di "consumato dealmaker", un uomo d’affari in grado di strappare anche gli accordi più difficili. E sposta l’attenzione sul piano di successione del gruppo Fiat-Chrysler, con "fonti vicine a Marchionne che – riporta il Financial Times – si aspettano che il prossimo piano triennale atteso in primavera sia il suo ultimo per il gruppo"». Sarà davvero l’ultimo, ma sappiamo come...

A Pietro Saccò spetta enunciare le sfide che attendono il nuovo gruppo: «Dalla fusione delle due società nasce il settimo maggiore costruttore di auto del mondo, dietro a Toyota, General Motors, Volkswagen, Hyundai, Ford e Nissan. È un costruttore fortissimo in Sudamerica, forte negli Stati Uniti, debole in questa Europa in crisi e con una presenza marginale in Asia». Le prospettive storiche, e un primo giudizio, lusinghiero, sono affidate alla voce mai tenera e sempre critica di Giancarlo Galli. Queste le sue conclusioni: «Servirà tempo per fare ruotare qualche trascritto dalle pieghe dei protocolli del matrimonio Fiat-Chrysler, a cominciare dalla risposta all’interrogativo: il Quartier Generale resterà a Torino o si trasferirà, come si sussurra, ad Amsterdam o addirittura a Detroit? Questioni delicatissime che non impediscono di plaudire al blitz di John & Sergio. In una stagione delicata, nonostante i balbettamenti della politica-politicante, hanno mostrato gli Agnelli la vitalità di un’Italia imprenditoriale che agisce senza complessi di inferiorità. Rendiamo a loro il giusto e doveroso omaggio: grazie!».

E le reazioni in Italia? Sindacati col mugugno e imprenditori sorridenti, secondo copione nazionale. Paolo Viana intervista Paolo Airaudo, sindacalista, deputato Sel: «Si doveva chiedere pari dignità e salvare la dimensione bicefala dell’azienda: avremo invece un comando unico, oltre Oceano». Luca Mazza intervista Maurizio Casasco, presidente Confapi: «La trattativa si è chiusa a condizioni convenienti per il Lingotto. Ciò significa che la Fiat avrà più risorse per investire in Italia».

Francesco Riccardi, quel fatidico 3 gennaio, offre il primo commento di Avvenire sulla storica fusione: «Cosa ha permesso la rinascita di Fiat e Chrysler? Certamente la bravura manageriale di Sergio Marchionne. Ma più ancora la disponibilità di tutti gli attori a spendersi in un gioco cooperativo. Il presidente Obama, lungimirante nello scommettere sugli italiani e su un’operazione industriale prima che finanziaria; i lavoratori americani, ai quali è stato chiesto un sacrificio enorme sul piano salariale; i loro sindacati che hanno investito nell’azienda fior di denari delle pensioni; gli italiani che hanno apportato buona tecnologia e sono stati chiamati a lavorare sulle due sponde dell’Oceano». I sindacati italiani però, a differenza di quelli americani, hanno fatto muro... «Per l’Italia, per noi, per i nostri lavoratori, questa intesa e la prossima fusione Fiat-Chrysler saranno un bene o avvieranno il declino definitivo? Fiat manterrà l’impegno a investire negli stabilimenti italiani? La "testa pensante" del gruppo resterà qui o sarà trasferita negli Usa? L’unica risposta che ci sembra sensata è: dipende. Dipende cioè dalle nostre capacità e dalla nostra volontà di fare sistema. Dipenderà dalla capacità di integrare meglio la ricerca universitaria e quella dell’azienda (...); di progettare nuove auto, di esplorare segmenti diversi e tecnologie "pulite" (...). È in questo che l’"essere italiani" può far premio. Valorizzando il nostro sapere tecnico e il nostro gusto estetico, scrivendo – azienda e sindacati – una nuova pagina di partecipazione e cogestione. Senza più alibi, senza più pregiudizi. Per usare un termine richiamato a Capodanno tanto dal Papa quanto dal presidente della Repubblica, dipenderà insomma dal "coraggio" di ri-pensarsi insieme, parte di un gruppo globale, componenti di una squadra cooperativa».

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