mercoledì 28 novembre 2018
Il 39enne rimasto cieco e tetraplegico dopo un incidente è stato aiutato a recarsi in Svizzera per morire
Un frame del videoappello di Fabiano Antoniani (dj Fabo) al presidente Mattarella (Ansa)

Un frame del videoappello di Fabiano Antoniani (dj Fabo) al presidente Mattarella (Ansa)

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«Quando è in gioco il mistero della morte di un uomo, il primo atto di rispetto sarebbe quello di tacere. Così, davanti a quella di Fabiano Antoniani, (in arte Dj Fabo), il giovane uomo di 39 anni rimasto cieco e tetraplegico a seguito di un grave incidente stradale avvenuto nel 2014, il più serio commento sarebbe il silenzio». Così scrive Giuseppe Savagnone il 28 febbraio 2017. Ma tacere non si può perché la scelta di Fabo viene trasformato in fatto politico da chi lo ha aiutato a recarsi in Svizzera, il radicale Marco Cappato (che si autodenuncerà), in una sede di "Dignitas" (tariffa: 10mila euro). Titola in prima pagina Avvenire quella mattina: «Fabo, una tragedia che fa male e divide. Suicidio assistito in Svizzera. È polemica politica». «Per quanto ci riguarda – prosegue Savagnone – noi qui non abbiamo nulla da dire sulla tragica scelta di questa persona. La visione cristiana a cui cerchiamo di ispirarci ci ha insegnato che non abbiamo alcun diritto di giudicare, noi, un essere umano, anche quando i suoi comportamenti non corrispondono alla nostra idea di bene e di male».

Avvenire è attento a non scivolare sulla polemica politica o peggio ancora ideologica. Ma è innegabile che la vicenda, in un momento in cui in Parlamento si discute di «fine vita», assuma un significato che va al di là della vicenda in sé.

Fabo è una persona sofferente il suo cuore è insondabile, anche se occorre fermare chi vuole strumentalizzare la sua tragedia per il proprio tornaconto. Non a caso i primi commenti, accanto a Savagnone, sono affidati a un medico – Marco Maltoni, direttore Unità Cure Palliative Ausl Romagna, sede di Forlì – e a un prete, don Maurizio Patriciello. Non impartisce lezioni, Maltoni, né esprime sentenze. «La sofferenza è individuale – scrive Maltoni –. Non ci si può immedesimare fino in fondo nella sofferenza di un’altra persona. La sofferenza è globale. Investe tutte le dimensioni di cui è fatto l’uomo: fisica, psicologica, sociale, spirituale. Merita rispetto, la sofferenza, e di non essere strumentalizzata, né in un senso, né in un altro. La sofferenza rappresenta il grande mistero che accompagna l’esistenza». Una «soluzione» non c’è. Ma ci sono le cure palliative e gli hospice: «Bisogna che chi è in situazioni estreme non sia lasciato solo, che possa intravvedere, sentire nella quotidianità che un cammino personale di significato è sempre possibile. Che lo strappo misterioso della sofferenza abbia la possibilità di trovare una presenza alla quale affidare il proprio bisogno. E che la Tenerezza – conclude Maltoni – ci accolga tutti».

Patriciello scrive come sempre, con il cuore e la fede. Chiede scusa a Fabo. Perché è rimasto solo. Perché non ha potuto disporre delle risorse che uno Stato civile dovrebbe garantire a quelli come lui: «L’ammalato è terra sacra. Il disabile è terra sacra. Se ogni uomo è un mistero, l’uomo che soffre è un mistero avvolto nel più inaccessibile dei misteri. Fabo, fratello, stiamo soffrendo. Con te, per te. Il mondo senza di te è più povero (…). Nella vita cambieranno tante cose, non il bisogno e la capacità di amare e di essere amati. Fino al momento supremo, e oltre. Voglio dirti ancora un volta che tu sei stato e sei unico». Il titolo della cronaca di Viviana Daloiso, a pagina 5, riassume lo stato d’animo che pervade le pagine di Avvenire: «Dj Fabo è morto. "Sconfitta per tutti"».

Dei tanti commenti dei giorni successivi, vale la pena ricordarne specialmente uno, quello di Giuseppe Anzani il 1° marzo. Stempera il clima avvelenato e fornisce informazioni utili, quelle omesse da chi ha interessi ideologici: «Ci vorrebbe uno svizzero come Erich Fromm, autore del celebre saggio sulla Anatomia della distruttività umana, per spiegare dal lato psicologico le mistificazioni che in questi giorni risuonano nei commenti sulla tragica fine del giovane Dj Fabo. Sembrano onde concentriche che battono sul tema della morte come scelta, diritto, assistenza, soccorso virtuoso persino; e descrivono la meta svizzera come un approdo accogliente, aperto al desiderio di farla finita "con dignità". Una morte spacciata per libertà».

Ma non è così. «La prima falsificata prospettiva – scrive Anzani – è quella di confondere il sistema giuridico elvetico con l’attività di alcune associazioni private che operano in Svizzera; di confondere il diritto svizzero con i margini permissivi che permettono a queste associazioni di passare immuni da sanzioni penali; di immaginare (o lasciar credere) che il suicidio assistito sia una specie di protocollo sanitario regolato e gestito negli ospedali. Falso. In Svizzera l’eutanasia è un delitto, punito dall’art. 114 del Codice penale. È un delitto anche l’istigazione e l’aiuto al suicidio (art. 115). Ma in questo caso la norma aggiunge "per motivi egoistici". E così, se i motivi non sono egoistici, s’interpreta che pena non c’è». Ricostruire una verità abilmente smontata è uno dei compiti del buon giornalismo, per chi sa apprezzarlo.

Si chiude con questa puntata la serie storica su mezzo secolo visto attraverso Avvenire. Tutte le pagine si trovano all’indirizzo www.avvenire.it/search/I 50 anni di Avvenire

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