mercoledì 3 ottobre 2018
Il 6 aprile la terra trema in Abruzzo: 309 morti, danni immensi. Il racconto di Avvenire. E il dubbio: si poteva prevenire?
L'Aquila, la Prefettura distrutta dopo il terremoto del 6 aprile 2009 (Ansa)

L'Aquila, la Prefettura distrutta dopo il terremoto del 6 aprile 2009 (Ansa)

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«Per l’Italia è la peggiore tragedia di questo millennio». La frase, riportata da Danilo Paolini, è del sottosegretario Guido Bertolaso, capo della Protezione civile, all’indomani del terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009. La peggiore forse non per il numero, comunque alto, delle vittime (il bilancio definitivo parlerà di 309, con 1.600 feriti). Ma per la distruzione in un territorio difficile. Per una ricostruzione che fin da subito si annunciava ardua e tutt’altro che veloce.

Il 7 aprile Avvenire dedica al sisma le prime 11 pagine del giornale. Mobilita i collaboratori e invia sul posto Pino Ciociola, Luca Liverani, Giovanni Ruggiero e Paolo Viana. Per interviste e schede sono coinvolti altri giornalisti delle redazioni di Milano e Roma. La terra stava tremando da tempo, in Abruzzo. Piccole scosse a cui la gente si era persino abituata. Fino alla notte tragica. «Inchiniamoci al dolore – è il titolo di prima pagina –. Terremoto devasta la zona dell’Aquila, almeno 150 le vittime. Decine di migliaia gli sfollati, si scava alla ricerca di superstiti. Alle 3.32 di ieri una scossa di magnitudo 5.8 ha portato morte e distruzione. Interi paesi semidistrutti». A pagina 3 la cronaca di quanto accaduto è affidata a Paolini: «La spallata forte, quella che ormai all’Aquila e dintorni tutti temevano e forse aspettavano pregando di sbagliare è arrivata dopo circa tre mesi di logoranti scossoni. Implacabile e vigliacca, ha colpito nel cuore della notte. A decine sono passati dal sonno alla morte: oltre 150 le vittime fino alla tarda serata di ieri, tra le quali almeno 8 bambini, ma i dispersi non si contano e si continuerà a scavare per giorni. I feriti sono 1.500, i senza tetto circa 70mila, gli edifici distrutti o comunque danneggiati tra i 10mila e i 15mila, con danni pesantissimi al patrimonio storico e artistico abruzzese».

Nel capoluogo è corso Ciociola: «L’Aquila ha le ali spezzate: abbattuta dal terremoto, ma non uccisa». Il quadro è ovunque desolante. Liverani è a Paganica, che «ora è una città spettrale. I vicoli sono coperti da tegole e calcinacci. Su per una salita che porta il nome di “Sdrucciolo del periglio” si scorge una casa crollata. Un altro balcone è appeso per la ringhiera». Gianni Quagliarella scrive da Onna, uno dei centri più colpiti: «Onna non c’è più, squassato dalla furia distruttrice della grande scossa, quella delle 3,32 di ieri notte. Il paesino, una decina di chilometri dall’Aquila, fino a ieri non più di 300 anime, è avvolto in un triste sudario di morte. È qui che, come spiegano i responsabili della Protezione civile, si è registrato “il maggior indice macrosismico”, ovvero la maggiore forza della scossa. Almeno 50 dei suoi abitanti non ce l’hanno fatta. Uccisi in piena notte. In piedi non c’è quasi più nulla, come, increduli e sconvolti, raccontano i primi soccorritori giunti sul posto». E ancora Piergiorgio Greco scrive delle 5 tendopoli per 20mila persone. Ruggiero racconta «terrore e lacrime di chi ce l’ha fatta». Giovanni Gazzaneo si sofferma sul patrimonio artistico: «I calcinacci sulla bellezza». Paolo Viana, infine, intervista l’arcivescovo Giuseppe Molinari, ospite della sorella.

A pagina 2, tra i commenti, ci si chiede soprattutto come un terremoto tutto sommato “debole” possa aver provocato una simile devastazione. Una risposta la fornisce Antonio Maria Mira (titolo: «Non è il sisma a uccidere ma la casa che ci cade addosso»): «Si può prevedere un terremoto? Purtroppo ancora no. Si può prevenire un terremoto? Questo sicuramente sì. Non lo diciamo noi ma tutti gli esperti. Non lo dicono da ieri. Lo ripetono, quasi lo urlano da anni. Si sa già come fare. Le parole chiave sono semplicissime: messa in sicurezza. Nessuna nuova scoperta scientifica ma solo buona pratica di costruzione. Roba da ingegneri più che da geologi, anche se questi servono per dare preziose indicazioni. Ma servono norme che indichino, anzi obblighino, a costruire, o a risanare, in questo modo. Perché con scosse molto più potenti non succede nulla a San Francisco o in Giappone? Quello abruzzese è stato un terremoto forte ma non fortissimo. Il 5.8 della scala Richter del sisma di ieri è 30 volte inferiore – sì, avete letto bene: proprio 30 – di tante scosse che in Giappone hanno provocato solo lievi danni. Già, perché non è il terremoto che uccide ma la casa che ci cade addosso. Spiega un ingegnere: “Sotto un sisma forte crolla quello che non può non crollare”. E se cade vuol dire che era fatto male per quel posto, per quel rischio. E il rischio è ben noto. Non ci sono alibi».

Nei giorni successivi le scosse continuano, gli inviati si aggirano tra i superstiti (Ciociola racconta della ragazza estratta viva dopo 42 ore, Ruggiero è tra i giovani di Cansatessa, Liverani nelle tendopoli). Paolo Viana (titolo: «Nei paesi colpiti dal sisma la voglia di ripartire») racconta di un popolo che lotta e non si arrende: «I soldi per la ricostruzione? Saremo come il Friuli», ripetono. Oggi possiamo dire, amaramente, che si illudevano.

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