mercoledì 25 luglio 2018
Si comincia con l'arresto di Mario Chiesa, poi la bufera che sconvolgerà la politica italiana. Rizzi: «Nulla sarà più come prima»
Antonio Di Pietro, a sinistra, e Mario Chiesa, a destra, nel novembre 1992 (Ansa)

Antonio Di Pietro, a sinistra, e Mario Chiesa, a destra, nel novembre 1992 (Ansa)

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La bufera non deflagra all’improvviso. Si annuncia con un refolo lieve. Due sobrie colonne di piede in prima pagina, il 18 febbraio 1992: «È il socialista Chiesa. Milano, manette al presidente della Baggina», con servizio interno di Alberto Annichiarico. Il giorno dopo entrano in campo Gabriella Pesenti ed Elisabetta Soglio: «Preso con la tangente firmata».

«Tangentopoli» e «Mani pulite», che segneranno indelebilmente la storia italiana, sono termini ancora ignoti. Si imporranno da primavera, con le raffiche di incriminazioni e arresti. In quel febbraio pochi ci fanno caso. Casi di corruzione sono frequenti in tutta Italia. Ma Avvenire – non suoni come vano sciovinismo – vede lontano. Il 24 febbraio in prima pagina il commento al caso-Chiesa è affidato a Giuseppe Anzani. È un giudice e giornalista tanto acuto quanto prudente, eppure premette: «Questa storia di tangenti manda odore di marcio». Soltanto oggi, alla luce di quanto accaduto, possiamo apprezzare il fiuto di Anzani. «L’accaduto può essere, in astratto, solo la piccola storia personale di un uomo. Il suo partito, il Psi, l’ha cacciato fuori con santa furia». E l’opinione pubblica? «All’indignazione ufficiale subentra uno scrollar di testa, una disincantata voglia di sospettare commedia in questa levata di scudi». La gente, appunto, pensa: «Ne hanno beccato uno. Uno su tanti, perché sono in tanti a fare così: anzi, così fan tutti. Quando c’è di mezzo la politica».

Anzani torna alla domanda iniziale: è l’isolata vicenda di un singolo mariuolo? «Se l’accaduto è la sventurata storia della debolezza privata di un uomo giocato dal desiderio di denaro, si dirà che una rondine non fa primavera. Ma se il nostro cielo è pieno di rondini, dobbiamo pur chiederci se la vicenda di Milano non sia l’anello di una storia infinita di ordinaria corruzione». Conosciamo la principale obiezione: «Rubare per una "nobile causa" (poniamo: rubare per il partito) senza trattenere nulla per sé, lascia le mani pulite. Ma questo è chiamare bene il male. La trappola mortale dell’onestà. Io non so se a Milano è andata così...».

Se non può ancora saperlo, Anzani però lo sospetta fortemente. E di fatto detta la linea di Avvenire per i mesi successivi: nessun giustizialismo forcaiolo, né assoluzioni previe, ma una sobria fermezza. Non si può chiamare bene il male: «Il delitto non è nobilitato da nulla, ma al contrario sporca la nobiltà della causa. Fa marcire la coscienza, e tolta quella, non rimane più nulla».

La ricostruzione su come Avvenire ha raccontato tangentopoli potrebbe finire qui, a questo primo refolo e all’esemplare commento di Anzani. Per un racconto completo servirebbero pagine e pagine, non queste poche righe. Fatto sta che la vicenda di Chiesa scompare dalle prime pagine per molte settimane. Ci ritorna il 3 aprile nello strillo di un servizio interno: «Scandalo Baggina. Il socialista Chiesa esce dal carcere». A pagina 6, Paolo Foschini spiega come adesso sia agli arresti domiciliari. Poi il vento comincia a montare. 23 aprile, taglio di prima: «Caso Chiesa, manette per otto imprenditori». A pagina 7 compare, forse per la prima volta, il nome di Antonio Di Pietro: «Gli inquirenti annunciano ulteriori sviluppi».

Il giorno dopo («Milano delle tangenti, la diga crolla»), anche Foschini si dimostra lucido profeta: «Chiamarlo solo caso-Chiesa, ormai, è ridicolo. A questo proposito il nome in codice usato dagli inquirenti la dice lunga: "Operazione mani pulite", la chiamano. Una vera e propria mappa milanese delle tangenti e degli intrallazzi tra affari e politica». Il 25 aprile il vento soffia sempre più impetuoso: «Tangenti, è una voragine. Gli imprenditori arrestati parlano, altri chiedono di farlo» (servizi di Foschini e Soglio). Il 26, primo commento in prima siglato AV: «Ora che i sette milioni della prima tangente nelle mani dell’ingegner Chiesa al Pio Albergo Trivulzio son diventati centocinquanta miliardi (cifra provvisoria), è normale supporre che qualche uomo politico non dorma sonni tranquilli». E ancora: «È scoppiato un bubbone di dimensioni inedite; si è sciolto, dopo anni, il mastice che per oltre un decennio ha tenuto insieme corrotti e corruttori, pubblici amministratori e imprenditori privati».

Avvenire conferma l’iniziale pacata fermezza: «Non c’è alibi che tenga, né per l’attività dei corrotti, né per i corruttori, anche se questi ultimi invocano per la tangente l’attenuante dello stato di necessità e della generalizzata sottomissione a pratiche diffuse».Il vento diventa bufera. Scrive Foschini il 28 aprile sul «drammatico interrogatorio» al Palazzo di Giustizia di Milano: «Il testa a testa con Di Pietro e Colombo è talmente serrato che a tratti, dalla finestra, se ne odono le grida». Giorni, settimane e mesi successivi vedono Avvenire coerente. Scrive il direttore Lino Rizzi il 5 maggio: «Dopo il ciclone, nulla sarà come prima. Gli effetti liberatori di questa inchiesta hanno fatto piazza pulita di tutte le vecchie ipocrisie». L’epitaffio è di Anzani, il 9 luglio: «Rubare per il partito è un doppio crimine, come il tradimento dei chierici».

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