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Il punto. La Siria, stremata da 9 anni di guerra, si ribella al virus della povertà

Asmae Dachan giovedì 11 giugno 2020

Siriani comprano pane. Il Paese è in ginocchio con l'inflazione alle stelle

Dopo nove anni di una guerra che non è ancora finita, portando sofferenze indicibili in tutta la Siria, i civili del martoriato Paese mediorientale stanno affrontando ora due nuove piaghe, la povertà diffusa e la pandemia da Covid–19. Le ripercussioni in un Paese messo in ginocchio da anni di violenze e distruzione, con un tessuto sociale ed economico disastrato, sono davvero pesanti.

La svalutazione della lira siriana di circa il 200%, e l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, stanno creando nuove tensioni sociali. La popolazione stanca, in ansia e senza nessun tipo di rassicurazion,e è tornata a manifestare nelle strade di Suwayda, formalmente sotto il controllo governativo, ma dove non mancano soldati russi e miliziani filo–iraniani. I dimostranti hanno scandito slogan esplicitamente diretti contro il presidente Bashar al–Assad, che proprio in questi giorni celebra i vent’anni dal suo insediamento, come successore del padre Hafez al–Assad. Il presidente, che ormai governa un Paese ridotto in macerie, con oltre 13 milioni tra profughi e sfollati, deve ora fare i conti anche con la minaccia della povertà che avanza.

Manifestazioni contro il governo per le sempre più disperate condizioni economiche si registrano anche alla periferia di Damasco e a Daraa, la città dove ebbero inizio le proteste del 2011, non lontano dalle contese Alture del Golan, ma anche a Deir ez–Zor e Hassaké, in territori controllati dalle forze curdo–siriane appoggiate dagli Stati Uniti.

Il governo siriano, dal canto suo, punta il dito proprio contro gli Usa e l’Unione Europea, affermando che la crisi è una conseguenza delle vecchie e delle nuove sanzioni economiche imposte alla Siria. Si avvicina, intanto, la data del 17 giugno, in cui dovrebbe entrare in vigore il “Caesar Act”, un nuovo pacchetto di sanzioni imposte da Washington, che mira alle aziende internazionali, in particolare quelle russe e iraniane, che intendono tornare a investire in Siria.

La situazione a Idlib, ultimo territorio conteso tra forze di opposizione appoggiate dalla Turchia e gruppi qaedisti, dove due giorni fa sono rimasti uccisi tre bambini a causa di un’esplosione, rischia ora di peggiorare, a causa della nuova crisi alimentare dovuta al carovita. Alcune Ong che distribuivano il pane e altri beni ai civili nelle tendopoli hanno dovuto fermare le proprie attività, e tra le donne e i bambini si è creato il panico per la minaccia della fame, che aggraverebbe la già precaria situazione in tutta l’area, dove vivono circa tre milioni di persone.

Sul piano sanitario, almeno sedici nuovi casi di coronavirus sono stati registrati dalle autorità sanitarie nella zona di Ras Maarra, a una novantina di chilometri dalla capitale, e su tutta l’area è stato imposto il blocco totale della circolazione. Secondo il ministero della Sanità, i casi accertati sarebbero 141, le persone guarite 58, ma questi numeri non tengono conto della situazione nel nord del Paese. La carenza di medicinali e la crisi igienico–sanitaria nelle tendopoli per sfollati a Idlib creano grandi preoccupazioni. Nelle scorse settimane i medici impegnati nelle zone di confine turco–siriano avevano lanciato diversi appelli, chiedendo aiuto, ma anche la riapertura del valico di Bab al–Hawa, per consentire almeno il passaggio dei pazienti malati oncologici e cardiopatici in cura negli ospedali di frontiera.

Le autorità hanno così deciso di permettere dai primi di giugno l’ingresso di cinque ambulanze al giorno, ma solo per le cure contro il cancro.