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L'analisi. L'America, le forze in campo e le «bombe geopolitiche»

Giorgio Ferrari sabato 27 febbraio 2021

A fugare ogni sospetto che il grilletto facile ce l’abbiano solo i repubblicani, la repentina svolta radicale della strategia mediorientale inaugurata da Joe Biden che ha stravolto l’intera agenda disegnata da Donald Trump e Jared Kushner si è avvalsa nelle scorse ore di un eclatante ritorno alla diplomazia delle cannoniere. L’incursione da parte dei cacciabombardieri americani contro una postazione della milizia filoiraniana in Siria (si parla di una ventina di vittime) ha una doppia, forse triplice valenza che è bene esaminare con cura perché la dice lunga sulla nuova via intrapresa dalla Casa Bianca.
Biden ha colpito un nucleo di miliziani sciiti appartenenti ai gruppi Kataib Hezbollah iracheno e Kataib Sayyid al-Shuhada – gli stessi, verosimilmente, responsabili dei tre recenti attacchi contro le basi americane in Iraq – ma ha scelto di agire in Siria, non in territorio iracheno.

Una risposta proporzionata (come puntualizza il Pentagono) e insieme asimmetrica (non diretta all’Iran, ma alla sua longa manus siriana). Ma – parafrasando McLuhan – proprio quelle sette bombe da 500 libre sono il messaggio. Un messaggio rivolto a Teheran senza coinvolgerla direttamente nello scontro ed evitando un’escalation militare, e al contempo un avviso alla Russia perché non si illuda che gli americani siano in procinto di lasciare in teatro siriano esclusivamente nelle loro mani. Di fatto, Biden intende riaprire la trattativa sul nucleare iraniano, ma da posizioni nette, di forza e soprattutto sottotraccia. Gli sherpa di entrambi i Paesi – anche se non lo ammettono apertamente – sono al lavoro da tempo per trovare una soluzione onorevole per gli ayatollah e risolutiva per Washington, ora che i ponti con l’Europa e con la Nato sono stati riaperti e il dialogo fra le due sponde dell’Atlantico si è riattivato con reciproca soddisfazione.
Ma Teheran, ed è comprensibile, non si accontenta di semplici parole.

E non è un caso che all’incursione in Siria si assommi la momentanea messa in mora del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman da parte della diplomazia americana: Biden lo ha scavalcato, telefonando ieri a re Salman alla vigilia della diffusione dell’esplosivo rapporto sulla morte del dissidente e collaboratore del Washington Jamal Khashoggi, assassinato da un commando di killer di Riad nel consolato saudita di Istanbul. Un rapporto che punta nettamente il dito sul principe ereditario, che a tutti gli effetti appare come il mandante del brutale omicidio. L’epoca in cui Mbs mangiava in mano a Trump e Kushner pare lontana. Da lui – sempre che re Salman non abdichi in favore di un’altra figura della sterminata famiglia Saud – Biden pretenderà moderazione, cautela e una svolta sui diritti umani. E soprattutto che si esca rapidamente da quella sorta di Vietnam della penisola araba, quella guerra sanguinosa quanto inutile e infruttuosa che Riad (MbS per primo) ha condotto nello Yemen, accatastando migliaia di vittime innocenti senza aver guadagnato nulla sul piano militare.
Dell’era Trump, Biden conserverà il cuore degli Accordi di Abramo, l’agreement fra Israele, le monarchie del Golfo e le nazioni arabe che ne seguiranno l’esempio e che oltre a garantire vantaggiosi scambi commerciali con l’apertura delle reciproche relazioni diplomatiche costituisce un rosario di alleanze indispensabile per quella “Containment Policy” – la politica di contenimento di lontana memoria della Guerra fredda – che Washington intende attuare nei confronti dell’Iran, magari con l’ausilio dissuasivo di qualche cacciabombardiere. Se la chiamassimo «Geopolitica delle bombe» non saremmo del tutto lontani dal vero.