Attualità

Ambiente. Sui rifiuti è la ragione a finire in cenere

Marco Morosini martedì 20 novembre 2018

L'inceneritore di Spittelau a Vienna

Pare che in Italia gli inceneritori riescano a incenerire una cosa sola senza lasciarne residui: la ragione. Intossicano prima ancora di essere costruiti. Ma altrove non è così. A Vienna e Zurigo, le due città in cui vivo, i due inceneritori di Spittelau e di Josefstrasse sono a 3,5 km e a 1,7 km dal centro, e a meno di un km dai miei due alloggi, teleriscaldati con il loro calore residuo. Le autorità ambientali di Vienna e Zurigo sono severe e incorrotte, le locali Ong ambientaliste rigorose. Vienna e Zurigo si contendono il primo e il secondo posto nei ranking mondiali della qualità della vita urbana. Nessuno obietta su questi inceneritori urbani. Forse qui in Austria e in Svizzera stiamo sbagliando tutto?

Potrebbe darsi. Ma almeno i Viennesi e gli Zurighesi ci sono arrivati senza guerre di religione tra le fazioni del 'no a tutto' («contro le mafie, le corruzioni e i veleni») e quelle, speculari, del 'sì a tutto' («per la crescita e il progresso»). Ci sono arrivati con dibattito pubblico, con argomentazioni razionali, e con un percorso decisionale legittimato e accettato. Le scelte finali non furono unanimi, ma furono razionali nel metodo e rispettose di tutti i punti vista. In Italia, invece, discutere in modo razionale e rispettoso della 'questioni rifiuti' sembra impossibile. Al suo posto si litiga sulla 'questione inceneritori', quindi su un tema 'end-of-the-pipe' (fine del tubo). Guardiamo, invece, a cosa mettere allo 'inizio del tubo'. Prima di tutto, guardiamo alla necessaria nuova concezione dei prodotti, della loro vendita e dei loro usi. Il discorso sui rifiuti viene solo dopo.

Se lo Stato, le industrie, i media e i consumatori si orientassero in primo luogo e radicalmente a evitare – ove possibile – di creare rifiuti, il loro smaltimento sarebbe un problema molto più piccolo. È a questa riduzione alla fonte che mirano le nuove politiche europee per un’economia circolare. Purtroppo esse sono ancora lettera morta, quando invece Stato, industrie e media avrebbero potuto praticarle – e lo Stato favorirle e imporle – da 50 anni. Fu infatti negli anni ’70 che i principi dell’economia circolare furono enunciati (Walter Stahel e Orio Giarini).

Da decenni le leggi dovrebbero indurre a concepire e fabbricare i prodotti in un altro modo, mirando al loro massimo uso, non alla loro massima vendita per ottenere il massimo Pil. Ossia: fabbricare non per l’usa e getta, la obsolescenza programmata e le mode, ma perché i prodotti durino più a lungo possibile, perché siano noleggiabili (dove è possibile) invece che comprabili. Leggi e strategie industriali dovrebbero operare perché i prodotti siano scambiati, oppure comprati e venduti di seconda e terza mano, perché siano restituibili al produttore, de-costruibili e rifabbricabili. Le aziende dovrebbero fare a gara per primeggiare in questa politica industriale del 21° secolo e per la loro reputazione sociale. Se applicassimo questi principi di politica dei materiali e dei prodotti, il 'problema rifiuti' si ridurrebbe almeno di 10 volte, avvicinandoci così a quel punto irraggiungibile che molti chiamano 'rifiuti zero'.

Ma nell’attesa dell’'ora x' dei 'rifiuti zero', cosa deve fare un sindaco al quale ogni giorno arrivano decine di migliaia di tonnellate dei rifiuti di oggi? Può cominciare a ridurre il problema dell'80 per cento con una raccolta differenziata spinta, come avviene in Nord-Europa e Nord-Italia, ma non in parte del Sud-Italia. E i rifiuti residui? La opzione peggiore, vietata in molti Paesi, è di seppellirli ('smaltire in discarica' dice un eufemismo).

Una volta seppelliti i rifiuti urbani non restano come sono e dove sono. Sono, infatti, una bomba a orologeria nella quale avvengono una varietà imprevedibile di reazioni chimiche i cui prodotti possono inquinare le acque e fare altri danni per secoli. Una volta evitati tutti i rifiuti evitabili, raccolti i restanti separatamente e riciclati, restano comunque milioni di tonnellate di rifiuti residui, in buona parte costituiti da oggetti fatti di materiali nocivi e inquinanti, mescolati, sporcati, e non recuperabili direttamente. Questi materiali sono xenobiotici (estranei alla vita) perché artificiali: plastiche, colle, coloranti, fibre sintetiche, materiali naturali trattati con prodotti chimici (fibre, legno, pellame, indumenti). Una scarpa da jogging da buttare, per esempio, contiene centinaia di questi materiali.

Un trattamento a freddo non può renderli inerti. Noi abbiamo 'montato' queste sostanze artificiali, ma gli enzimi e la natura non sanno 'smontarle'. Il loro trattamento meno nocivo, specialmente sul lungo termine, è quindi quello termico per trasformare queste sostanze in ceneri inerti seppellibili, oppure usabili come materiali da costruzione (le ceneri pesano un terzo dei rifiuti bruciati). Rifiutare ogni trattamento termico è il contrario di ciò che fanno tanti Paesi del centro e nord Europa, che da vent’anni lo hanno reso obbligatorio (prima di poter seppellire le ceneri). Rinunciare al trattamento termico, infatti, vuol dire seppellire rifiuti molto nocivi in discarica, siano essi interi, oppure sminuzzati con trattamenti meccanici e irrazionali tentativi di trattamenti biologici.

Il rigore dovrebbe concentrarsi sul pretendere una migliore qualità del trattamento termico (incenerimento, pirolisi, o gassificazione, multi-filtraggio) e sul rendere molto meno nocive le emissioni dagli impianti termici (da vent’anni si può). Non sul rifiuto del trattamento termico di per sé. Da richiedere e imporre anche alzando la voce e i cartelli di protesta, sono contratti vincolanti per emissioni minime dagli inceneritori, controlli severi, e sanzioni in caso di infrazione. In Germania 30 anni fa provenivano dagli inceneritori un terzo delle diossine. Dieci anni fa, solo l’uno per cento.

La 'questione rifiuti' è ulteriormente complicata da un fattore lessicale, uno temporale e uno geografico. Un inceneritore è costruito per bruciare tanti rifiuti, non per produrre un po’ di calore. Per questo all’estero questi impianti son chiamati inceneritori, anche quando recuperano il calore. In Italia però qualcuno li chiama 'termovalorizzatori' seminando così la malfidenza tra coloro che non vogliono essere presi in giro. Il tempo, è un altro problema. Un inceneritore si fa in 5-10 anni e dura 30 anni. Se nel frattempo la riduzione dei rifiuti (alla fonte e con la raccolta differenziata) sarà più veloce del previsto, l’inceneritore sarà troppo grande. Se sarà più lenta del previsto, l’inceneritore sarà troppo piccolo. Se sarà troppo grande, scoraggerà i progressi verso una ulteriore riduzione dei rifiuti. Se sarà troppo piccolo, condannerà una parte dei rifiuti ad essere ancora seppelliti, o esportati, o sparpagliati illegalmente. Mettere in sincronia questi 'due treni', che viaggiano su binari diversi, con capotreni diversi, è molto difficile, anche con le migliori intenzioni.

Infine c’è il fattore geografico. Da una parte sarebbe giusto che ognuno trattasse i propri rifiuti. Ma ognuno chi? Ogni città? Ogni ex-provincia? Ogni regione? Ogni macro-regione? Quando nella capacità degli impianti ci sono squilibri geografici, sarebbe meglio compensarli tra loro con la minore distanza possibile, o almeno distribuirli in Italia, piuttosto che consumare energia per trasportare fino a Vienna i rifiuti residui del sud Italia e recuperarne l'energia teleriscaldando i viennesi. Insomma, le soluzioni tecniche, economiche e politiche ci sono, come dimostrano altri paesi. Ora capisco quella espressione di moda che si chiama 'sistema paese'. È quello che l’Italia deve ancora diventare. Con la scienza, la coscienza e la buona volontà di tutti.

Docente di politiche ambientali, chimico analitico ambientale