venerdì 1 febbraio 2019
A Palazzo Martinengo 80 opere rappresentano il tema dal Rinascimento al Settecento nell'immaginario sacro e profano. Manca però il “Cristo nel deserto con gli animali” di Moretto
Bertozzi & Casoni, “Peccato originale” (2015)

Bertozzi & Casoni, “Peccato originale” (2015)

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La storia della pittura comincia con gli animali, dove sono gli uomini a svolgere il ruolo di comprimari (basta, per aver conferma, osservare i più antichi dipinti e graffiti rupestri). L’animale diventa “compagno” soltanto in seguito, quando in alcuni casi l’uomo lo addomestica perché abbia un posto ordinato dentro il suo mondo. Ma ci sono animali e animali: le bestie feroci o i pesci sono più difficili da addomesticare di un cane. Comunque sia, alcuni filosofi e artisti moderni cercarono possibilità di rispecchiamento fra uomo e animale così che l’indole delle diverse specie offrisse qualche paragone per definire il carattere mutevole degli individui umani. Chi non ricorda i ritratti fisiognomici di Charles Le Brun che, con piglio cartesiano, indagano nel profondo delle emozioni e delle espressioni umane cercando riscontro nell’indole animale a cui più s’avvicinano? Uomini coniglio, uomini gufo (o donne civette, ça va sans dire e il gioco è fin troppo facile), e così via: cammelli, volpi, buoi, gatti, cani e lupi, cinghiali e aquile, caproni... In ogni uomo c’è qualcosa dell’animale. Darwin studierà le espressioni di certi quadrupedi e delle scimmie per trovarvi un anello di congiunzione con gli uomini. D’altra parte, il mondo delle fiabe e delle favole parla della profonda simbiosi fra mondo agreste e mitologie teratomorfe (che connotano le stesse divinità con attributi spesso tratti dalla sfera animale). Le definizioni o i nomi dei diversi esemplari del mondo animale sono entrati nel nostro linguaggio più arcaico e sacro, per dire ciò che è umano e alludere ai centri della nostra istintività. E Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, nemmeno un secolo dopo Le Brun, scrisse la monumentale Histoire Naturelle dove ben 15 volumi sono dedicati ai quadrupedi, e altri 9 agli uccelli: la descrizione di ogni specie animale nasconde sempre per lui una subliminale parentela con l’umano. Agiva anche su questi pensatori moderni una seduzione immaginifica che, talvolta, sforava nella fantasia e nella solare e benefica “ingenuità” del racconto letterario (Giorgio Celli, della cui brillante intelligenza si sente la mancanza, aveva una particolare attenzione a cogliere queste concessioni alla nonchalanche da parte dei pionieri delle scienze naturali moderne).


A dire il vero, recandomi con le migliori intenzioni, e con grande curiosità, a Brescia per vedere la mostra che Davide Dotti ha ordinato nelle sale di Palazzo Martinengo su Gli animali nell’arte, col classico sottotitolo acchiappatutto, «dal Rinascimento a Ceruti» (fino al 9 giugno, catalogo Silvana), pensavo di trovare almeno due cose: una seria disamina del tema, se non altro perché accogliendo all’ingresso della mostra il visitatore una bacheca parla di operazione unica nel suo genere e mai tentata prima; e soprattutto avrei voluto che ad attendermi al centro dello spazio più consono, e consono per ragioni di itinerario e di rimandi al prima e al dopo, ci fosse lui, il padrone di casa, il pittore che portando nel proprio nome la città dove la mostra si tiene, è nondimeno colui che nella storia della pittura ci ha dato un unicum sul tema: Moretto da Brescia, il quale, ecco che vengo al punto, dipinse verso il 1540 un quadretto, circa mezzo metro di lato, che raffigura Gesù Cristo nel deserto con gli animali selvatici. L’opera si trova al Metropolitan di New York, e se non sbaglio è l’unico dipinto conosciuto dove Gesù è in compagnia del mondo animale (selvaggio, nota bene). Non dico che dovesse esserci anche la Creazione degli animali del Tintoretto, che pure è suggestiva, ma certamente il quadro di Moretto avrebbe ben figurato, se non altro per non far cadere questa mostra in un birignao animalista con ambizioni di pietra miliare della materia.

Parentesi. L’animalismo come scenario per viaggiatori coatti di nuove tappe del Grand Tour, è anche questo un segno dei tempi. Una nuova moda. Rispettare un animale, per esempio, non vuol dire portarlo ai concorsi di bellezza dopo averlo adeguatamente manipolato perché sembri una soubrette anni quaranta, l’Osiris Wanda per capirci, come accade a certi barboncini bianchi. Dicono che gli animali finiscono per assomigliare, nei tic e nelle espressioni, ai loro padroni; i cani che abbaiano di continuo, per esempio, fateci caso, abitano spesso in famiglie “cagnarotte”. Purtroppo sempre di più accade il contrario.

Una scelta del curatore della mostra bresciana – forse per rompere lo schema scontato – è stata quella d’interferire l’allestimento delle opere storiche con alcune sculture (!?) in ceramica policroma di Bertozzi & Casoni, ceramisti emiliano romagnoli oggi molto affermati (hanno persino un Museo delle loro opere), le cui “nature morte” ricordano un po’, per la verosimiglianza, le frutta che Giovanni d’Errico, il fratello di Tanzio da Varallo, plasmò per il Sacro Monte, ma, lui, con minore iperrealismo di quanto i due artisti di oggi facciano (in ogni caso, va registrata l’eleganza rarefatta del loro fenicottero nel giardino Martinengo).

Venendo al percorso della mostra, la partizione segue distinzioni classiche. Pittura sacra: il San Gerolamo di Antonio Campi, non tra le sue cose più intense: il povero leone, attributo iconografico del santo, ha la verità di una pietra, zampe conserte, e mansueto, sì, fino alla morte o al sonno eterno. Nella tela del Cavalier Tempesta, l’agnello in primo piano si espone con inconsapevole fierezza di sé, mentre lontano il Battista raccoglie da una fonte l’acqua con un piattino: a rendere grazioso il tutto è lo sfondo paesaggistico, in un dipinto che tuttavia manca di ogni premonizione e tragicità. Possiamo dire che sia un quadro con animali? Sul piano nominale certo, ma nella pratica? Lo stesso per il capro sacrificale nel Sacrificio di Isacco di Cavarozzi: una rilettura caravaggesca che non sfiora l’“originale”. L’arca di Noe dipinta dal Grechetto, grande estroso genovese, ci presenta una scena più movimentata con l’affollamento del regno animale, dove troviamo anche quello che, con calma serafica, guarda verso di noi senza troppa premura, com’è giusto che sia in chi nell’istintualità ha la propria legge.

La sezione mitologica, con una bella tela di Jan Ros, Orfeo che incanta gli animali, prosegue poi con alti e bassi e anche con opere non sempre di certa attribuzione (per esempio il Ratto di Europa assegnato a Luca Giordano, il cui ductus pittorico è meno intenso e sentito di quel che il pittore sapeva fare). Seguono quindi sezioni “di moda”: quella del cane, appunto, o del gatto; nani e animali, scene di caccia, oppure animali esotici e fantastici. Ma, parlando di cani, ricordo che già nei mesi scorsi a Venaria Reale era stata dedicata una mostra con arco ancor più ampio, «dall’antichità a oggi» il cui titolo suonava come tortura: Cani in posa. Pensa un po’... Nella sezione canina di Brescia sorprende un quadro disinvolto come Guercino e la madre con un cane lagotto dove l’ignara bestiola è pettinata quasi dovesse salire in passerella. L’avrebbe dipinto il fratello di Guercino, Paolo Antonio Barbieri, ancora giovane, ma l’attributo che diede il nome al Guercino, l’occhio destro offeso, assume nel quadro un peso tanto caricaturale che si stenta a crederci.

Tralasciando il resto, vorrei soffermarmi sul pezzo forte della mostra – almeno, secondo il curatore –, un dipinto ritrovato di Giacomo Ceruti, pittore del quale è esposto anche un gatto in braccio a un vecchio che ha il fisico, lo sguardo e la premeditazione felina di una belvetta con istinto da killer (mentre l’altro vecchio, che tiene un cane, per quanto evocato in coppia in un documento, sembra di qualità più inerte, nonostante l’animale abbia il piglio dell’attaccabrighe). L’opera di cui dicevo, ritrovata negli uffici degli Spedali Civili di Brescia dopo essere caduta nell’oblìo (come sia stato possibile, trattandosi di una tela di tre metri per due, è un mistero), s’intitola Scena d’interno con figure e quattro cani. I cani ci sono, ma non si può dire che svolgano un ruolo molto allusivo. Sono lì, in una stanza dove tutto ha qualcosa di improvvisato e promiscuo; è la scena di una visita a sorpresa, col letto disfatto sul quale verosimilmente stava la donna al centro del quadro, un po’ discinta e in camicia da notte. Lo storico Morandotti ci ha visto «una richiesta di chiarimento»: il marito sospettoso avrebbe colto la moglie nel pieno di una tresca con un gentiluomo e ora, mani sui fianchi, pretende risposte, nella completa indifferenza dei suoi cani. Povero becco, direbbe Boccaccio.

Forse, come ha scritto Morandotti, l’autore dell’opera è il Ceruti tardo, cronista impietoso e sferzante della società dei notabili. Ma alcune approssimazioni pittoriche, dall’orologio alla consolle sottostante, alla figura sullo sfondo che si affaccia curiosa, mostrano qualcosa di disarticolato a livello esecutivo che fa un po’ dubitare. Concludendo, a fine visita salta all’occhio come gran parte delle opere esposte provengano da collezioni private. Un tempo si sarebbe pensato a una mostra con scopi da mercato antiquario, ma qui forse si tratta solamente di mercato delle allodole.

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