martedì 5 novembre 2013
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Don Zeno era davvero un tipo da film. In due sensi: che la vicenda biografica sua e di Nomadelfia avrebbe meritato parecchi metri di pellicola cinematografica, e che il suo interesse per il grande schermo fu precipuo e costante lungo tutto il suo apostolato. Al punto che il suo biografo principale, il professor Remo Rinaldi, ha deciso di dedicare all’argomento un intero libro, firmato con l’italianista Umberto Casari: Don Zeno e il cinema a San Giacomo Roncole (Nomadelfia edizioni, pp. 176, s.i.p.). E le curiosità non mancano: come la grande amicizia del sacerdote emiliano con il regista Pietro Germi, che don Zeno cercò più volte di convincere a girare un film su Nomadelfia, oppure i progetti anteguerra per costituire una casa di produzione cinematografica cattolica... Tutto comincia a San Giacomo Roncole, appunto, la località carpigiana dove Zeno Saltini fece le prime esperienze pastorali negli anni Trenta – e dove nacque il suo progetto di «nuova società» evangelica basato sull’accoglienza dei minori e sulle «mamme di vocazione». L’opinione del giovane prete sul cinema è entusiastica: mentre una gran parte dei confratelli si preoccupa soprattutto dei pericolosi risvolti morali della settima arte, invocando un’efficace censura, egli è convinto che bisogna invece cavalcarne coraggiosamente le potenzialità di evangelizzazione: non ci si può limitare all’uso delle forbici, occorre «cristianizzare le pellicole»; e, come suo solito, pensa le cose in grande. Dalla macchinetta Pathé Baby con cui nel 1931 proietta nella sua stanza il primo Michele Strogoff muto a una piccola platea di giovani, passa ad organizzare un cinematografo all’aperto sulla facciata del «casinone» (il palazzotto di fronte alla chiesa, dove abitano anche i suoi ragazzi): un impianto che, negli anni d’oro, giungerà ad ospitare più di mille spettatori a sera. Già nel 1933 don Zeno proietta film sonori – una vera rarità per la zona, in quell’epoca – che attirano centinaia di persone anche dai paesi vicini; vengono persino organizzati servizi di trasporto regolare, in corriera o su carretti a cavalli. Di più: al cinema del prete si proiettano anche i film americani, che invece sono osteggiati dal regime fascista e che dunque le case produttrici noleggiano a prezzi bassissimi. Sono occasioni uniche per godersi le produzioni più celebri dei divi di Hollywood. Col tempo don Zeno crea una vera e propria organizzazione, con astuzie imprenditoriali e pubblicitarie notevoli. Il venerdì sera, per esempio, è riservato ai giovani, con sconti eccezionali; il martedì è invece gratis per le donne, il mercoledì è riservato alle pellicole di qualità (vere e proprie «prime visioni») mentre la domenica c’è lo spettacolo per tutti. Ovviamente il sacerdote ha anche un secondo fine, quello che lui chiama «il varietà» e il suo pubblico – in dialetto – ribattezza «discorso generale»: ovvero tra un tempo e l’altro imbastisce la sua «predica», un commento che partendo dal Vangelo si allarga con foga oratoria (e don Saltini sapeva veramente tenere il pubblico appeso alle sue parole) a tutti gli argomenti della vita. Ma non si tratta solo del miele per attirare le mosche: per il fondatore di Nomadelfia il grande schermo ha valore in sé. «Questa cinematografia – sostiene – non era un divertimento, era il mezzo più grande che Dio ci dava in mano per salvare gli uomini, per illuminare il mondo». Per questo non teme di contrastare i confratelli che lo accusano di proiettare anche scene discutibili: «Dei film proibiti non ne abbiamo mai fatti; se c’era qualche scena sconveniente, io la tagliavo». E quando un inviato del vescovo gli chiede perché non sospenda gli spettacoli in quaresima, com’era prescritto, ribatte: «Perché, in quaresima non si legge? Io a questa massa di popolo come faccio a fare leggere dei libri? Allora metto là uno schermo e proietto un dramma. Vanno a casa, hanno letto un libro. E poi faccio il discorso quaresimale in teatro». Visto il successo, don Zeno allarga l’opera, giungendo a gestire ben 11 sale nei dintorni; sono i suoi ragazzi più grandi che, debitamente istruiti, si recano a fare da macchinisti; al punto che lui pensa a indirizzarli al cinema come professione. Nell’estate 1937 prende contatti con il direttore romano della Warner Bros, che lo esorta a scrivere un soggetto da girare; un paio d’anni dopo progetta «una società anonima che ha per programma la produzione di pellicole morali», per la quale chiede un finanziamento addirittura al Papa (!). La guerra lo sorprende mentre sta per rilevare una società che costruisce proiettori cinematografici, finché nel giugno 1943 fonda la casa di produzione Piccoli Apostoli, assumendo e facendo venire appositamente da Cinecittà un direttore, il professor Francesco Volta, un operatore e due tecnici per le scenografie (un ragazzo di Nomadelfia, Giuseppe Fregni, da quelle esperienze partirà per una carriera di scenografo internazionale) e per lo sviluppo delle pellicole; in tre mesi ha già speso un milione e mezzo di attrezzature, finanziati dall’industriale brianzolo dei salumi Vismara... Nel dopoguerra l’idea è ripresa, e allargata a una scuola di cinematografia; ma presto ben altri problemi – quelli che porteranno al fallimento di Nomadelfia e alla laicizzazione volontaria e temporanea di don Zeno – svieranno i grandiosi propositi. È il tempo in cui sono piuttosto lui stesso e la sua creatura a diventare non tanto soggetto, ma oggetto di cinema, per esempio con alcuni documentari della fine degli anni Quaranta, Sorge Nomadelfia (con commento musicale dell’amico Carlo Rustichelli) e Un giorno a Nomadelfia, un paio di altre sceneggiature e soprattutto la corrispondenza con Pietro Germi, conosciuto a Roma nel 1945. Del regista neo-realista e agnostico a don Saltini piace moltissimo Il cammino della speranza: «Quello è un film! Germi non sa di essere profondamente cristiano, e dire che qui va all’osso del cristianesimo». Per questo Zeno insiste a lungo perché Germi giri un film a Nomadelfia, «un film direi tra i tuoi più apprezzati e credo anche un film di cassetta, quindi popolare», ma inutilmente. E in una conversazione del 1962 sintetizzerà piuttosto amaramente la sua esperienza di produttore cattolico: «Abbiamo perso la cinematografia, non è nostra, noi siamo dei poverini che prendiamo le forbici per fare un film: noi vorremmo cristianizzare il diavolo con quelle forbici lì... È inutile stare a criticare i film degli altri, bisogna farli. Tanto semplice!».
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