mercoledì 3 maggio 2017
Sergio Zavoli ripercorre un'epopea lunga cento edizioni
Aprite le finestre, torna il «serpente multicolore»
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Il “serpente multicolore”, così si chiamava nelle cronache fantasiose, mentre scrivo queste righe sta dormendo. Quest’anno si festeggia il Giro delle cento edizioni, da quando un gruppo di “biciclisti” dette inizio alla più visionaria e spropositata delle discipline sportive. La gente aprì le finestre, e non era ancora giorno. Da una Bugatti un inedito buttafuori si sgolava con un megafono per annunciare, nel buio, che stavano arrivando quarantanove corridori con il tubolare incrociato sul petto, quasi il simbolo di un martirio, i viveri a tracolla, due borracce sulla schiena. Grigi di polvere e sudore, quella sarà per mezzo secolo la divisa dei temerari. Grazie a un pallido avanzo di calce resisteranno a lungo sui muri le tracce della corsa, i cui eroi hanno il nome dopo il cognome: viva Binda Alfredo, Ganna Luigi, Gerbi Giovanni, come all’anagrafe e al cimitero. Toccherà anche a Coppi Fausto, Bartali Gino, Magni Fiorenzo, campioni del Nord, i primi a scendere al Sud e rimanervi, fino a ieri, sui muretti a secco. L’esplosione della bicicletta dove oggi la insidiano i motori – se n’è appena andato l’indomito Scarponi, così simile al suo robusto cognome – insegue un semplice bisogno di semplicità, utilità e svago. Un tempo si festeggiava anche la “maglia nera” per il più fragile o sfortunato, ricordo la debolezza di quella volta che un aspirante alla “maglia dell’ultimo” si trastullava in fondo alla corsa e ormai vicini all’arrivo gli gridai: «Stia attento, vada piano!». Uno sgarro che la tv, ogni tanto, seppure teneramente non mi ha risparmiato. Ma confesso che, dopo la tappa delle Tre Cime di Lavaredo – con la “carovana” a brandelli, travolta da neve, grandine e pioggia – e gli alpini che si erano presi ciascuno un corridore per spingerlo fino al traguardo – il ciclismo mi parve la narrazione di una sconvolta, umana metafora; tanto che chiesi, dal palco, l’annullamento di qualcosa che non apparteneva a uno sport. A darmi una mano salì trafelato sul trespolo Bruno Raschi, che mi annunciava il consenso della “Gazzetta” e della giuria; d’altronde, secondo un grande filosofo, i fatti finiscono per essere solo la loro interpretazione, e poteva andare così anche al Giro. Alfredo Oriani, esagerando bonariamente, aveva chiamato il velocipede «la massima possibilità poetica consentita al corpo umano»; ma le subdole scorciatoie offerte dai primi “teoremi” farmacologici, e relative tragedie, non furono d’accordo. Le cadute, l’incidente meccanico, la foga di un esagitato, le ruvidezze della bici e dei percorsi, la durata della fatica, le curve prese male e non dirado concluse drammaticamente, la lucidità mentale e fisica indebolita dal freddo e il solleone, o dalla fame e la sete, avevano creato un patto della tolleranza che collegava le discolpe e persino gli alibi alla passione pubblica, e accettare la solidarietà dell’esercito non era come indulgere alle profferte del doping, che cominciava a insinuare, in mezzo mondo, i suoi reati. Lascio il primo allarme a Bartali, che discutendo del supplizio richiesto ai corridori dalla tremenda tappa del Bondone si era lasciato andare: «Non capisco perché ai più giovani non si evita di rischiare tanto! Certe fatiche prima o poi si pagano». Pagherà presto Simpson, un campione, rotolato a lungo in un calanco, al Tour, senza capire che stava morendo. Le “schegge” televisive di Enrico Ghezzi ci hanno salvato, per dir così, da tanti suicidi della memoria; in quelle immagini sopravviveva, anche per i “suiveurs”, una sorta di giacimento psicologico, sociale, morale, culturale, cui attingere non appena la “Gazzetta” riaccendeva il suo rosa araldico. Malaparte, privilegiando l’estetica, aveva chiamato il ciclismo «quest’opera d’arte, questo gioiello dello spirito», cioè l’inimmaginabile, l’inaudito. Alfonso Gatto, che non sapeva andare in bicicletta – e la considerava una diavoleria – scriverà dal Giro: «E adesso cadrò, cadrò fino all’ultimo giorno della mia vita sognando di volare...», ignorando che quel verbo nascondeva anche un’altra interpretazione. Fermerà Pantani in cima al suo ultimo prodigio. Cento erichette, al pari dei grandi vini che difendono le loro lune, risvegliano una storia colma di ruvidezze e sensibilità, di coraggi e cedimenti, sogni e spropositi: era come se un singolare aspetto dell’umanità consegnasse alla bicicletta la nostra vita. Il ciclismo povero e precario affrontò anche degli errori, per esempio rifugiandosi nelle lusinghe che arrivavano dalle strategie pubblicitarie, ma di cui godevano solo i capitani. Comincerà a godere persino di straordinarie reputazioni, come dopo l’attentato a Togliatti, quando parve configurarsi un clima pre-rivoluzionario e si azzarderà l’idea che il pericolo l’avesse scongiurato il Tour in cui stava trionfando Gino Bartali; per giunta, quel giorno, con una vertiginosa vittoria di tappa che avrebbe distratto gli italiani da un «incombente, e grave, sommovimento»! La bislacca combinazione politico-ciclistica finì per assumere un ruolo addirittura salvifico. «Compagni, non perdete la testa!», era riuscito a dire, in clinica, il leader ferito. La civiltà industriale, crescendo, non prendeva più i pedalatori dai campi: le squadre ebbero ragionevoli condizioni contrattuali, i corridori la tutela sindacale, e i gregari, ormai in calzamaglia, camminavano alzandosi sugli scarpini per godere meglio il loro mondo, e dare persino un’occhiata alla classifica. Da quando conobbi non in sogno l’ebbrezza del Giro, ma proprio nel cuore della corsa, c’è uno scenario che continua a ricordarmi i brividi delle grandi, perigliose discese, con le schegge di roccia pronte a infilzare le magliette di chi tagliava le curve radendo la montagna. Gastone Nencini ne seppe qualcosa. Ma da venerdì continueremo a vivere il Giro nella sua naturale bellezza, l’Italia sarà ancora alle finestre, lungo le strade, tra i monti, perché stanno tornando le «rondini d’argento».

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