martedì 15 febbraio 2011
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«La poesia? È come una preghiera. Per dire grazie». Grazie di che cosa? «Di essere arrivato a novant’anni con lo stesso desiderio di quando ne avevo sette: quello di scrivere». Andrea Zanzotto è entrato nell’anno novantesimo della sua vita. È nato a Pieve di Soligo il 10 ottobre 1921. E ieri gli amici, tra i quali la parrocchia di Pieve, gli hanno dedicato un omaggio, il volume Poeti innamorati, con brani, da Guittone a Raboni, letti e spiegati da Andrea Zanzotto, Patrizia Valduga, Roberto Cicala. «Mio marito lo dice sempre: la poesia gli dà vita, oggi gli impedisce di vegetare», sottolinea la moglie Marisa.A quale età ha cominciato a comporre versi?«A sette anni, forse anche prima, perché la nonna e una zia erano solite intrattenermi con brani dei più diversi autori che loro sapevano a memoria. Nelle filastrocche della nonna potevano apparire, indifferentemente, termini dialettali e aulici, frammenti di tedesco minimo e di latino maccheronico. Le rime di Ariosto e Tasso che era solita recitarmi, secondo le abitudini di una cultura tra popolare e classica, tipica dell’ambiente veneto, intercalandosi e quasi fondendosi con il dialetto di Pieve, comportarono in me una percezione fantasiosa delle parole. Ho appreso precocemente il linguaggio, anche in virtù della musicalità e del ritmo che caratterizzavano le innumerevoli filastrocche che mia nonna era solita recitarmi».E le zie perché "interferivano"?«All’epoca le zie avevano una grande importanza nella vita quotidiana delle famiglie; quasi in ogni nucleo familiare c’erano molte zie, le quali erano spesso degli esseri di singolare ricchezza umana, che dedicavano l’intera loro esistenza alla cura della famiglia, sembrando in teoria a carico della stessa mentre invece lavoravano praticamente gratis. Oggi, invece, può capitare che i nipoti non sappiano nemmeno dell’esistenza degli zii».A volte è anche al contrario.«È vero. Peccato, perché le zie che io ricordo sapevano tenersi su un tono di fedeltà alla vita, nonostante le disgrazie. Rare volte le vedevo abbattute. Avevano una capacità di ripresa singolare. Figure che sarebbero ancora più necessarie oggi».Come quelle dei nonni, peraltro…«Quando andavo a trovare mia nonna Marina mi chiedeva sempre: cosa hai studiato oggi? Io le rispondevo: ho studiato storia, geografia. E lei continuava: raccontami quello che hai studiato. E io diligentemente cercavo di ripeterle, appunto, quello che avevo imparato, e la nonna lo ascoltava con doverosa ammirazione, perché a tutti i costi mi avrebbe messo sempre sopra un altare. E soprattutto mi interrogava sulla storia, e voleva sapere del passato, delle guerre, perché lei aveva sofferto molto, a causa del primo conflitto mondiale. Nonna Marina amava sentir parlare di storia proprio perché vedeva nella storia la crudeltà umana. Ricordo che non diceva mai il re, ma lo chiamava "el stort", cioè lo storpio».Perché mai?«Aveva ancora un conto in sospeso con il re Vittorio Emanuele III, reo di aver causato, secondo lei, e in fin dei conti è vero anche, l’intervento dell’Italia nella prima guerra mondiale».Per ricordare i suoi novant’anni gli amici le hanno "confezionato" un pomeriggio di poesie d’amore. Non è un po’ singolare?«Io non lo trovo singolare, perché considero la poesia d’amore quella più vicina a Dio. Anzi, è quella che avvicina a Dio».Che lo dica lei, che si è sempre considerato un laico…«Non lo sono più tanto. Anzi, non lo sono affatto. Da tempo sono alla ricerca. Di Dio, nel mio caso. D’altra parte, tutti gli uomini cercano il motivo della loro esistenza».Ritiene di averlo trovato?«Non completamente, perché Dio non è mai raggiungibile. Questa "fortuna" tocca ai santi, ma io santo non sono. Attenzione, però: la mia non è una ricerca forzata. È naturale, come lo è il respiro. Ci sono persone che perdono per la strada questo soffio. Io lo sto recuperando».A novant’anni si dedica ancora alla poesia?«Sì, proprio l’altro giorno ho rimesso mano a un inedito. L’ho scritto il 22 giugno 1988. Chissà perché non ho mai voluto pubblicarlo».L’argomento? «Il titolo è questo: "Da oggi calano ancora le giornate". E questo è l’inizio: "Su, alto alto tra fumi alti / e strinata valle di piogge lacrimarum vallis". È un brano dedicato al solstizio. Così prosegue: "O vagabonda immagine, instabile / inafferrabile colmo dell’anno / Midsummernight, negata, vasta sfasciata/e desueta, in povere arcaiche traduzioni / questo è il mio sogno / camminare per fili di traduzioni, arcaicità / verso Oberon, verso Titania / o errabondi folletti, falsificazioni / di questo da tanto correlato-solstizio / fermati inizio / fine non rotolarmi già fuori Midsummernight…».Aveva ragione quella maestra che dopo aver acquistato da sua zia il libro "Dietro il paesaggio" (1951), le disse: "suo nipote scrive troppo difficile, non si capisce niente"…«La zia aveva una cartolibreria e a chi gli chiedeva quel libro, anticipava: mio nipote Andrea scrive cose talmente alte che nemmeno le maestre riescono a capirle. Ed era questo un punto a mio favore, che tacitava qualsiasi critica».Dopo aver composto versi per più di ottant’anni, che cosa le resta da dire, anzi da scrivere?«La poesia è sempre più di attualità perché rappresenta il massimo della speranza, dell’anelito dell’uomo verso il mondo superiore. Per cui mi dico spesso: per fortuna che a novant’anni scrivi ancora poesia, in particolare quella che coinvolge il sacro. Così, appunto, vivo».È uno stato di grazia?«Sì, proprio così. È difficile da dire, da spiegare; sono cose molto complicate, fuori dell’esperienza tangibile, diretta…».E l’ispirazione a novant’anni da che cosa origina?«L’ispirazione, a questa età, non può che arrivare da un senso di gratitudine. Sinceramente non ho mai sperato di arrivare a novant’anni e di poter ancora scrivere di tutti gli argomenti. Ribadisco comunque la mia convinzione, e cioè che la poesia è un continuo lavoro di reinvenzione e quasi sempre ha come oggetto la lode del divino».La sua poesia?«No, anche quella di tanti altri».Il paesaggio collinare in cui è vissuto è stato una sua frequente fonte di ispirazione. Oggi, però, ai vigneti si alternano i capannoni industriali. Perché l’uomo non è riuscito a custodire questo pezzo di creato?«Semplicemente perché non l’ha amato. E oggi si comporta come se si sentisse occupato da un’invasione diabolica».
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