giovedì 10 novembre 2016
50 anni fa esplodeva il fenomeno della controcultura giovanile che avrebbe portato al 68. Anni ammantati da un'aura mitica, raccontati in una mostra al Victoria & Albert Musueum attraverso la musica
Alan Aldridge, "Revolution” da “The Beatles Illustrated Lyrics” (Alan Aldridge/Iconic Images).

Alan Aldridge, "Revolution” da “The Beatles Illustrated Lyrics” (Alan Aldridge/Iconic Images).

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Prima del 1968 venne il 1967 e la californiana Summer of love. Ma prima di tutti venne il 1966. L’anno in cui in Europa prese avvio la “rivoluzione” della controcultura giovanile – in perfetta coincidenza con quella culturale lanciata da Mao in Cina. Accadeva mezzo secolo fa, e da allora non ha cessato di crescere nel racconto mitologico: di chi c’era e di chi vorrebbe esserci stato.

I fabulous Sixties e la Swinging London sono al centro di “You say you want a revolution? Records and rebels 1966-1970” in corso fino al 26 febbraio al Victoria & Albert Museum di Londra. La mostra decide, non a torto, di seguire l’evoluzione di quei cinque anni fatidici attraverso la musica: quella che in Italia era definita “leggera”, ma che ha avuto un peso determinante nel definire e nel propagare nuovi modelli culturali perché capace di aggregare, di veicolare messaggi, di essere accessibile (tanto nella fruizione che nella creazione), di creare un immaginario. Sono gli anni in cui i Beatles raggiungono l’apice creativo, da Revolver a Sgt. Pepper’s fino allo scioglimento proprio nel 1970, dell’esplosione dei Rolling Stones, della psichedelia dei Pink Floyd, e oltreoceano di fenomeni molto diversi come Bob Dylan e i Velvet Underground. Sono gli anni in cui l’avanguardia, artistica e musicale, incontra la cultura di massa, ma anche quelli in cui si manifesta un nuovo difficile rapporto con la realtà, ormai ridotta a manipolazione di immagini, ben raccontato nello stesso 1966 da Blow Up di Michelangelo Antonioni. Sono gli anni delle droghe, dell’espansione artificiale della coscienza, della “liberazione sessuale”, delle proteste antimilitariste ma anche quelli in cui nasce la moda come la conosciamo oggi, con il volto iconico di Twiggy. È un mondo fatto di musica, di forme fantastiche e kitsch, di colori sgargianti, dove un’allegra, anarchica follia sembra essere la sola legge: il trionfo del “paese delle meraviglie” di una Alice eletta a eroina lisergica, una "Feast of Fools" permanente, di certo choccante in una Londra, popolata da inappuntabili uomini in bombetta e ombrello, che a vent’anni dalla fine della guerra era ancora nera di macerie e di secolare fuliggine.


Per riportarli in vita il Victoria & Albert Museum allestisce un percorso rutilante, tra centinaia di copertine di vinili (veicolo attraverso cui una innovativa concezione della grafica si diffonde in modo pervasivo), poster, pubblicità, abiti e costumi (compresi quelli originali di Sgt. Peppers), decine di filmati d’epoca, le chitarre (intere e distrutte) di Jimi Hendrix, la scaletta originale di Woodstock, l’autografo del testo di Lucy in the Sky with Diamonds... Reliquie per un popolo nostalgico in pellegrinaggio, servite dalla liturgia di una colonna sonora che ti segue passo passo (attraverso un avveniristico sistema di audioguide) con tutte le hit dell’epoca.

«You say you want a revolution» cantavano i Beatles nel 1968, sul lato B di Hey, Jude: «Dici di volere una rivoluzione. Be’, sai, tutti noi vogliamo cambiare il mondo». E il mondo fu cambiato? I curatori della mostra sottolineano come molti dei temi che caratterizzano la contemporaneità si sviluppano proprio in quella fase: il problema di una coscienza ambientale, l’emancipazione femminile e i diritti degli omosessuali, la tecnologia informatica – con i primi personal computer e internet, nato nelle “comuni” californiane – ma anche il consumismo.


A mezzo secolo di distanza non tutto appare vera gloria. Ad esempio, l’iconografia femminile della “liberazione sessuale”, dai poster al costume di Paco Rabanne per Barbarella, più che protofemminista oggi sarebbe giudicata decisamente sessista. Ma è soprattutto il concetto di “rivoluzione” a essere intrigante. Nata come fenomeno urbano, spontaneo e giovanile, da una parte questa “rivoluzione” da underground si trasforma ben presto in fenomeno commerciale, cavalcato da discografia, moda e mass media, normalizzata in categoria merceologica per la società di massa. Dall’altra segue il ciclo vitale e naturale di ogni rivoluzione, a partire dal fatto che il suo essere antiborghese ha origini (e intellighenzia) borghesi. Come ogni rivoluzione, muove da una minoranza che diventa massa critica a livello di opinione e visibilità. L’ideologia si impadronisce del sincero empito liberatorio, che si sclerotizza in ortodossia antilibertaria. Dopo il 1966 viene l’estate dell’amore, l’autunno del 1968 e l’inverno di piombo degli anni ’70. L’irresponsabilità gioiosa si spegne negli scontri di piazza, nel libretto rosso di Mao portato in processione, ai fiori nei cannoni si sostituiscono le rivoltellate della polizia e le molotov dei manifestanti, da coetanei a coetanei. Le droghe da libertà diventano una schiavitù, gli incendiari finiscono pompieri (Eldridge Cleaver, leader delle Black Panthers, qui fotografato assiso sul trono di vimini tra pelli di leone, finì la sua carriera come repubblicano conservatore). La rivoluzione si fa permanente a posteriori nel suo racconto, si burocratizza trasformandosi in mito.

"Imagine", avrebbe cantato John Lennon nel 1971. Dalla volontà di cambiare il mondo si passava ormai ad immaginarlo soltanto, proiettato in una utopia crepuscolare. Il foglietto bianco con il testo originale, reliquia delle reliquie con cui si chiude la mostra, appare come il segno della resa.

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