martedì 27 ottobre 2015
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A 78 anni Abraham B. Yehoshua è un uomo pieno di curiosità. Quando il discorso cade sui temi della fecondazione assistista («In Israele – dice – le cliniche della fertilità hanno avuto uno sviluppo incredibile»), ne approfitta per chiedere chiarimenti sulla posizione della Chiesa cattolica, per esempio. Ed è anche straordinariamente umile. «Nel mio Paese gli intellettuali hanno sempre avuto un ruolo importante – ricorda –. Lo stesso Theodor Herzl, il padre del sionismo, era un narratore molto apprezzato e anche in anni recenti la voce di scrittori come Amos Oz e David Grossman non ha mai smesso di essere ascoltata». Vero, ma Yehoshua dimentica di citare se stesso e l’influenza che libri come Il signor Mani, L’amante, e Il responsabile delle risorse umane hanno avuto nel ridisegnare l’immagine dell’identità ebraica nel mondo contemporaneo. In questi giorni lo scrittore è in Italia insieme con la moglie Ika per le presentazioni del suo nuovo romanzo, La comparsa (traduzione di Alessandra Shomroni, Einaudi, pagine 260, euro 20,00). È la storia del temporaneo ritorno a Gerusalemme di Noga, una musicista che per sua scelta non ha mai voluto avere figli e che, nel corso della vicenda, si trova a interrogarsi più volte su questa decisione. «Tutto è cominciato dal titolo – spiega Yehoshua –. Sapevo che sarebbe stato La comparsa, il resto è venuto di conseguenza». Scusi, ma come si dice “comparsa” in ebraico? «Nitzevet, ed è una parola dal significato molto ricco, molto complesso, come accade spesso nella nostra lingua, dove quasi ogni termine porta con sé una sfumatura di tipo religioso che, di volta in volta, può rivelarsi illuminante o, al contrario, essere d’intralcio. È il caso di nitzevet, che nell’uso corrente indica il ruolo di comparsa al cinema o in teatro, appunto, ma è anche l’espressione con cui Mosè si riferisce al rapporto tra Dio e il popolo d’Israele dopo lo stabilirsi dell’Alleanza: l’uomo non deve più mettersi in ginocchio, ora può stare in piedi alla presenza del Signore. Pensi che anche il più alto grado della polizia israeliana si chiama così, nitzevet». Sì, ma Noga si limita a fare qualche particina in film e telefilm... «Sì, è un’occupazione che accetta per vincere la noia durante il suo soggiorno in Israele: ormai vive in Olanda, suona l’arpa in un’orchestra, è padrona di se stessa. Ma fare la comparsa è in realtà un modo per ripensare la propria vita. Ogni ruolo che le viene affidato, che sia quello di una profuga uccisa mentre sbarca sulla spiaggia o di una malata che si muove in sedia a rotelle tra le corsie di un ospedale, rivela alla fine un legame con la sua esperienza. A un certo punto, durante le riprese di un processo, a Noga viene chiesto di pronunciare il verdetto, e quel verdetto è “colpevole”. In quel momento, la donna ha la sensazione di parlare di sé». Non volere figli è una colpa? «Di sicuro ancora oggi è la donna a sentirsi condannata per non essere diventata madre. E questo nonostante la decisione di non avere figli possa essere presa anche dagli uomini. Conosco diversi casi simili e questo, vede, non fa altro che accrescere la contraddizione dell’epoca in cui viviamo. La tecnica rende sempre più facile il concepimento, che ormai può avvenire anche al di fuori della coppia. Ma nello stesso tempo sempre più persone scelgono di non avere figli». Come se lo spiega? «Spiegare non è il mio compito, ma come romanziere sono interessato a capire. Anche perché si tratta di decisioni personali che hanno una portata enorme sul piano sociale. Lo si è visto di recente, a proposito delle reazioni che hanno accompagnato il dibattito sull’accoglienza dei profughi in Germania. Tra le altre, emergeva la paura che un domani nel Paese non ci fossero abbastanza tedeschi. È un segnale, secondo me, del fatto che rinunciare alla discendenza significa mettere fine a un ciclo storico». Dovremmo fidarci di più delle madri? «Noga è una donna, ma è proprio lei a non volere figli, anche a costo di divorziare dal marito Uriah, che invece avrebbe un gran desiderio di diventare padre. Sinceramente, l’argomento per cui un mondo retto dalle donne sarebbe migliore, più compassionevole e giusto, non riesce a persuadermi. In Israele abbiamo avuto una donna come primo ministro, e si è rivelata un primo ministro molto duro...». Che cosa pensa della nuova intifada? «L’intifada dei coltelli, come ci siamo abituati a chiamarla, è qualcosa di terribile, rispetto alla quale l’Europa non può accontentarsi di stare a guardare. Dico l’Europa, non gli Stati Uniti o qualsiasi altra potenza, perché oggi la situazione è molto diversa rispetto al passato. Non si tratta più di favorire le condizioni generali per un processo di pace, gli attori della trattativa sono ormai ben individuati e, sul piano formale, anche il premier Netanyahu riconosce l’esistenza dello Stato Palestinese. Gli interlocutori sono questi, sono i vicini di casa Israele e Palestina, e spetta a loro trovare la soluzione. L’Europa deve avere il coraggio di far valere la sua autorità morale, avviando un’offensiva diplomatica che obblighi le due parti a raggiungere un accordo. Lo ripeto: è una responsabilità alla quale l’Europa non può più sottrarsi ».
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