giovedì 12 maggio 2016
​Allen apre le danze del Festival del cinema con una commedia dal retrogusto amaro sulle occasioni perdute.  
Cannes, con Woody seduti al Caffè
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LA GOLINO VOTA E PORTA “PERICLE”. Conosce tutti nel mondo del cinema, ma promette di essere inflessibile e imparziale Valeria Golino, chiamata a far parte della giuria della 69ª edizione del Festival di Cannes presieduta dal regista australiano Claude Miller e composta anche  dalle colleghe attrici Kirsten Dunst e Vanessa Paradis, dall’interprete danese Mads Mikkelsen e da László Nemes, regista ungherese premio Oscar per Il figlio di Saul. La Golino, Coppa Volpi all’ultimo Festival di Venezia, presenterà la prossima settimana il suo ultimo film da produttrice (insieme a Riccardo Scamarcio e ai fratelli Dardenne), Pericle il nero, diretto da Stefano Mordini, nella sezione collaterale Certain Regard. «Per piacermi – dice l’attrice – il film della Palma d’oro dovrà avere una grande personalità, un punto di vista forte».«Credo di essere un grande folle romantico, cosa però che non ho sempre condiviso con le donne della mia vita. Non sono mai stato uno alla Clarke Gable o Cary Grant, ma ho reso romantica New York, il passato, e le storie d’amore come quella che avete appena visto. Amo i film romantici, appena posso ne faccio uno». Così ci ha raccontato ieri Woody Allen che proprio all’insegna del romanticismo ha inaugurato ieri la 69ª edizione del Festival di Cannes, affidata al suo Café Society, piccola commedia dal retrogusto amaro illuminata dalle luci calde di Vittorio Storaro, punteggiata da una bella musica jazz e ambientata tra la New York e la Hollywood d’oro degli anni Trenta, quella dominata dagli studios cinematografici che dettavano legge anche nella vita privata di registi, produttori star del grande schermo. La storia, narrata fuori campo dallo stesso Allen, racconta di un agente hollywoodiano, Phil, improvvisamente alle prese con il nipote Bobby, che ha lasciato la Grande Mela e la grande famiglia ebraica per cercare il proprio posto altrove. Mentre lo zio cerca di piazzarlo nella sua società facendogli incontrare le persone giuste, il ragazzo si innamora a prima vista di Vonnie, segretaria dolce e naif, che però, già fidanzata, lo respinge. Ma tra i due giovani c’è molto di più di una semplice amicizia, e quando Vonnie in lacrime rivela di essere stata abbandonata dal fidanzato, Bobby torna a sperare. Salvo scoprire però che l’uomo che Vonnie vuole è proprio lo zio Phil, sinceramente innamorato della segretaria, ma restio ad abbandonare la moglie dopo 25 anni di matrimonio. Quella raccontata da Woody Allen però non è una storia sui soliti banali triangoli, su bugie e tradimenti. L’ottantenne regista newyorkese, che ormai alterna con precisione quasi scientifica film più neri e pessimisti con quelli più leggeri e romantici, si interroga con malinconia sulle occasioni perdute, su una felicità che caparbiamente inseguita continua a sfuggirci di mano, sull’amore mal riposto, sul rimpianto per quello che avrebbe potuto essere e non è stato, sulla dolce nostalgia per qualcosa di bello che abbiamo assaporato e non abbiamo saputo conservare. E lo struggente finale suggella la forza di emozioni inafferrabili, ma incapaci di abbandonarci. Niente di nuovo, intendiamoci, nell’universo Allen, eppure questo prolifico regista dimostra ogni volta di saper rimpastare materiali a lui familiari per confezionare storie che lasciano il segno, complice anche un manipolo di attori che sotto la sua direzione riescono ad esprimere il meglio di se stessi. Come Jesse Eisemberg, perfetto alter ego di Allen, Steve Carell, comico ormai sdoganato dal cinema d’autore, Kristen Stewart, nuova musa del cinema mondiale dopo la saga di Twilight e Blake Lively, attrice emergente ancora poco nota al pubblico internazionale. «La vita è una commedia scritta da un autore sadico», si dice nel film: anche la parte più romantica di Allen non rinuncia alle fulminanti, amare battute a cui il regista ci ha abituato nel corso di tutta la sua filmografia. «Quello che volevo dire con questa frase è che viste dall’esterno alcune situazioni che hanno a che fare con tradimenti e abbandoni ci fanno ridere, ma possono essere molto tristi e dolorose per chi le vive in prima persona. E a volte mantenere una prospettiva comica sulla vita aiuta a non cadere nella disperazione. Il film - continua il regista - doveva avere la struttura di un romanzo ambientato in un periodo di tempo lungo, con capitoli dedicati ai vari personaggi. Mi è sembrato naturale, ed anche più economico, che fossi io stesso il narratore, con la mia voce fuori campo». Una volta assai restio a partecipare alle conferenze stampa e a concedere interviste, Allen è oggi sempre più disposto a raccontarsi, con divertimento e tanta autoironia. «Ho compiuto 80 anni, non capisco come faccia a dirigere ancora film. Un giorno mi sveglierò, mi verrà un colpo e salirò su una sedia a rotelle, ma fino a quel momento, e finché ci saranno dei pazzi disposti a darmi dei soldi per fare film, io vado avanti. La fama? Certo, c’è un prezzo da pagare, come la totale mancanza di privacy, ma i vantaggi sono di gran lunga superiore ai danni». E a proposito della scelta di non andare in concorso con il suo film, commenta: «Nei festival di cinema si ritrovano in gara i migliori registi e sarebbe come scegliere tra Picasso e Matisse. Esprimere un giudizio oggettivo sul meglio è impossibile, la decisione delle giurie è troppo arbitraria per essere accettabile».
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