domenica 3 maggio 2020
È impossibile disgiungere in Giovanni Paolo II il teologo, l’artista, il filosofo, il pastore. Un approccio integrale quasi irripetibile
Karol Wojtyla, orizzonte infinito
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Proponiamo la parte finale del testo scritto dal cardinale Gianfranco Ravasi per il numero di maggio di “Luoghi dell’Infinito”, interamente dedicato ai cento anni di Karol Woytjla.

Fondamentale è stata quella Lettera agli artisti posta da Giovanni Paolo II quasi a portale d’ingresso del grande Giubileo del 2000 (essa, infatti, reca la data cronologica e simbolica della Pasqua 1999). Questo scritto è quasi la sintesi del suo messaggio sulla bellezza come via luminosa sulla quale deve incamminarsi anche la fede. Sorprende, così, la scoperta – all’interno di un documento pontificio – della presenza di Dante e di Dostoevskij, di Claudel e di quel grande cantore della bellezza delle icone che è stato Pavel Florenskij. Sorprende anche veder accostati alle rarefatte intuizioni di Niccolò Cusano gli impasti cromatici sontuosi di Chagall.

Che a scrivere questa Lettera agli artisti sia stato un Papa che fu anche drammaturgo (pensiamo alla Bottega dell’orefice), poeta e scrittore, lo si vede da questi riferimenti e da quelli legati alla cultura della sua terra. Nello scritto, infatti, appaiono sia una citazione di Adam Mickiewicz (1798–1855), il bardo del popolo polacco, sia la figura di Cyprian K. Norwid (1821–1883), amico di Chopin, divenuto celebre per la poesia Il pianoforte di Chopin, che si è trasformata in una specie di vessillo nazionale polacco. Con questa Lettera Giovanni Paolo II voleva riannodare quel filo d’oro che ha sempre unito attraverso i secoli fede e arte, quando dall’artista «la materia era piegata all’adorazione del mistero» e l’icona diveniva «in un certo senso sacramento» della presenza divina. L’arte ha bisogno della fede cristiana anche perché, come scriveva il Papa, «il dogma centrale dell’Incarnazione del Verbo di Dio offre all’artista un orizzonte particolarmente ricco di motivi di ispirazione».

L’arte può, così, diventare un’epifania della bellezza divina generando grazia e illuminazione; essa, per usare una celebre locuzione dantesca, «a Dio quasi è nepote» (Inferno, XI, 105). […] Uno spazio particolare vogliamo riservare, infine, al suo legame con la poesia. E lo facciamo attraverso le meditazioni poetiche di una delle sue ultime opere letterarie, il Trittico romano (2003). Si tratta di un poemetto simile a un intarsio di citazioni e allusioni bibliche che hanno nella Genesi la loro sorgente: anzi, quando il canto raggiunge il suo apice le parole cedono il passo alla versione latina della Vulgata, quasi fossimo in una celebrazione liturgica. In queste pagine fede e poesia sono come sorelle che procedono con lo stesso passo. Basti solo seguire la composizione Torrente che domina la prima tavola del trittico: «Questo ritmo mi rivela Te / il Verbo Primordiale». Su tutto si stende il velo della contemplazione che fiorisce sia dalla fede sia dalla poesia: «Ed egli era solo, col suo stupore, / tra le creature senza meraviglia / per le quali esistere e trascorrere era sufficiente». Solo l’uomo, dunque, riesce a meravigliarsi e quindi a credere e a cantare. È quello che viene mirabilmente testimoniato quando «la soglia dello stupore» dal tempio cosmico passa «sul limine della Sistina». È la scena centrale del trittico, la più vasta e solenne. L’intreccio tra fede e arte è celebrato quasi come in un’epifania: «Il Libro aspetta l’immagine. […] La visione aspetta l’immagine».

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Di fronte a questo glorioso abbraccio tra la Parola e il Simbolo, il Papa poeta usa un termine di straordinaria efficacia, “Presacramento”. Anche nello splendore della creazione umana, definita dalla Scrittura e dall’Immagine, si svolge l’atto della salvezza. In quel racconto visivo, in cui s’incrocia il dialogo tra Dio (Lui), Io (l’uomo), Michelangelo (l’arte) e Loro (la coppia umana), si delinea non solo la genesi dell’essere e della storia, si profila anche la vicenda della Chiesa (proprio nella Sistina si compie «il lascito delle chiavi del Regno») e si prefigura la pienezza dell’Apokalypsis. Ma il canto di Giovanni Paolo II si sviluppa lungo un terzo movimento, destinato a suggellare il trittico.

Esso è affidato, in filigrana, soprattutto a quella pagina emozionante dell’ascesa di Abramo al «colle nel paese di Moria», sul quale il patriarca s’inerpica stringendo nella sua la piccola mano del suo ragazzo, Isacco. Nel cuore, però, c’è la morte perché in esso è stampato il gelido comando divino dell’immolazione (Gen 22). Ma quell’itinerario non avrà come approdo la morte. Diverrà, invece, un segno: «O Abramo, così Dio ha amato il mondo, / che ha consacrato il suo Figlio, perché ognuno, che avrà fede in Lui, possa attingere alla vita eterna». Ormai il patriarca e suo figlio recano in sé il «nome – segno dell’Alleanza / che il Verbo Primordiale ha stretto con te» e che avrà in Cristo, figlio di Abramo, il suo sigillo definitivo.

Lo scrittore argentino Jorge Luis Borges, caro all’attuale papa Francesco, nella sua Obra poética ha confessato: «Ogni poesia è misteriosa: nessuno sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere». Anche la poesia, quindi, come la fede conosce l’“ispirazione” trascendente divina. San Giovanni Paolo II ha ricevuto due doni, la fede e la poesia: è per questo che egli ha sentito la necessità non solo di professare ma anche di cantare, non solo di pensare ma anche di intuire, non solo di credere ma anche di inneggiare. Egli si è, così, dissetato alla duplice sorgente sempre viva delle acque di Dio: «Consentimi di aspergere le labbra / d’acqua della sorgente, / di percepire la freschezza / – freschezza vivificante».


A cento anni dalla nascita di Karol Wojtyla (18 maggio 1920, Wadowice) “Luoghi dell’Infinito” dedica il numero di maggio 2020 (il duecentocinquantesi mo) a san Giovanni Paolo II. Una monografia – in edicola con “Avvenire” da martedì 5 – che vuole raccontare la sua figura, la sua spiritualità, il ruolo fondamentale nella storia del Novecento, la sua eredità.

Personalità del mondo della Chiesa e della cultura raccontano i tanti volti del Papa “chiamato da un Paese lontano”: attore di teatro, operaio, filosofo e poeta, mistico e prete, professore universitario, vescovo di Cracovia, pontefice di Roma. E i suoi grandi amori: Cristo, la Chiesa, la sua Polonia, i giovani, la montagna, la Vergine Maria.

Giovanni Paolo II è stato anche il Papa di tanti primati. Primo pontefice slavo e primo Papa straniero dopo Adriano VI (1522–1523). Di lui ricordiamo i tanti Viaggi apostolici (104 nel mondo, oltre alle 146 Visite pastorali in Italia), che nascevano dal desiderio di abbracciare i popoli nella coscienza che non si può comunicare senza incontrare.

Ricordiamo la prima visita in una sinagoga e la prima visita in una moschea. Il suo lunghissimo pontificato ha segnato il tratto finale del secolo breve.

Possiamo affermare che proprio Wojtl‚a sia stato il fattore decisivo che ne ha accelerato la conclusione. Subito dopo la sua morte fu giustamente definito “Karol il grande”.

Nella monografia presentiamo i testi, tra gli altri, dei cardinali Gualtiero Bassetti e Gianfranco Ravasi (dei quali anticipiamo qui i testi), Enzo Bianchi, Mario Botta, Anna Maria Cànopi, Franco Cardini, Enzo Fortunato, Sergio Givone, Andrea Riccardi, Pierangelo Sequeri.

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