venerdì 16 ottobre 2020
Alle Gallerie Estensi una mostra racconta il pioniere inglese delle tecniche di riproduzione fotografica e l’epopea di una “immagine non dipinta dall’uomo”
William Henry Fox Talbot, "Vasi cinesi su uno scaffale", 1839-1844, carta salata da calotipo

William Henry Fox Talbot, "Vasi cinesi su uno scaffale", 1839-1844, carta salata da calotipo - Modena, Gallerie Estensi

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Anno 1839. A Parigi Louis–Jacques– Mandé–Daguerre e a Londra William Henry Fox Talbot rendono pubbliche le proprie tecniche di riproduzione fotografica: la dagherrotipia il primo, la calotipia il secondo. Se entrambe lavorano con i sali d’argento, una delle differenze è che la prima consente la realizzazione di una sola immagine su lastra mentre la seconda, seppure meno precisa nei dettagli, consente la creazione di multipli su carta. Meno noto presso il grande pubblico di Daguerre, Talbot è centro e spunto di una mostra alle Gallerie Estensi di Modena dedicata alle “origini della fotografia” (a cura di Silvia Urbini, catalogo Franco Cosimo Panini).

Non è una mostra “fuori luogo”. Le Gallerie Estensi infatti custodiscono un nucleo di diciotto stampe – tra disegni fotogenici e calotipi –, accompagnate dalle relative lettere, donate da Talbot a Giovanni Battista Amici, naturalista, matematico e costruttore di strumenti scientifici modenese. Siamo forse abituati, in modo istintivo, a pensare la fotografia come a una pratica tecnologica della modernità. Colpisce constatare che quando Joseph Nicéphore Niépce nel 1825 realizza la prima fotografia, la celebre Veduta dalla finestra a Le Gras, Leopardi pubblica L’infinito, Beethoven ha ancora due anni di vita, Antonio Canova è scomparso da tre e Napoleone da quattro. Quando 14 anni dopo Daguerre e Talbot svelano le proprie ricerche, la generazione degli impressionisti, che alla storia della fotografia sono così legati, in buona parte deve ancora nascere. La pastorizzazione è del 1862, la lampadina del 1878.

Per quanto dagli effetti dirompenti non appena acquisisce una scala industriale (e Talbot fu tra i primi a spingerla in questo senso), la fotografia – è una delle chiavi di questa mostra – si inserisce nel percorso delle tecniche di riproduzione grafica. Per secoli acquaforte e xilografia sono state le sole a consentire la diffusione di immagini e l'illustrazione dei libri. È solo nel 1799 che ha luogo la rivoluzione della litografia. Il 1838 è l’anno del brevetto della galvanoplastica, che consente la riproduzione in metallo di oggetti tridimensionali. È il racconto della nascita dell’era della riproducibilità tecnica.

William Henry Fox Talbot, ”Tablet set for tea” (1839–1844), carta salata da calotipo

William Henry Fox Talbot, ”Tablet set for tea” (1839–1844), carta salata da calotipo - Modena, Gallerie Estensi

Le origini della fotografia sono dunque all’interno della cultura illuminista, attratta dalla scienza e dall’ombra (il Settecento è il secolo delle silhouette), a cui corrisponde un oscillare – come sarà anche per il moderno – tra un culto della tecnica e una cultura dell’esoterico. Una delle prime definizioni della fotografia è “una pittura non fatta con le mani”: per usare un termine classico dell’icona, acheropita. Mentre la rivista “Aethenaeum” definì le foto di Talbot una «moderna necromanzia». Per quanto i processi sociali che accompagnano questi fenomeni sono quelli della rivoluzione industriale – Talbot stesso vive il passaggio dall’aristocrazia agraria cristiana, a cui apparteneva la famiglia, alla dimensione urbana, borghese, laica – in un certo senso la fotografia appartiene idealmente a quella branca della tecnica in cui si incasella la magia. La fotografia nasce dall’ombra e porta alla luce l’ombra delle cose, evocata attraverso processi che in altri tempi si sarebbero detti alchemici. Le prime tecniche di riproduzione procedono “per contatto”, termini che ci rimanda direttamente alla sfera semantica e concettuale della reliquia. Più che mera cronologia è spirito dei tempi se il boom della fotografia alla metà dell’Ottocento coincide con quello dello spiritismo, un misto tra scienza e occulto.

Agli esordi la fotografia, dunque, è sorella della “arti grafiche”. Viene precocemente utilizzata per la riproduzione delle opere d’arte (tale era ad esempio l’idea di Francesco IV d’Este quando da Modena a metà Ottocento invia a Vienna l’orefice Felice Riccò a studiare le tecniche di riproduzione fotografica per poi metterle in pratica nella sua galleria): il museo immaginario di André Malraux, fondato sul mezzo fotografico, ha il suo seme qui. Altrettanto precocemente diventa strumento di lavoro di artisti e illustratori, anche in questo caso in continuità con la pratica storica di dispositivi ottici come la camera oscura, utilizzata dal Rinascimento fino ai vedutisti, o la camera lucida, inventata nel 1807 da William Hyde Wollaston. Presto, ad esempio, i dagherrotipi diventano modello per essere riprodotti in serie attraverso le tecniche di traduzione “tradizionali” dell’acquatinta o della litografia.

William Henry Fox Talbot, “Leaf of a plant” (1839–1844), disegno fotogenico

William Henry Fox Talbot, “Leaf of a plant” (1839–1844), disegno fotogenico - Modena, Gallerie Estensi

Se Daguerre, pittore e scenografo, intuisce subito le potenzialità della fotografia all’interno della nascente industria culturale. Talbot invece è un gentleman scholar, un aristocratico libero da preoccupazioni economiche dedito agli studi. Anche per questo Talbot propone la calotipia come strumento in ambito scientifico, dalla botanica all’archeologia (è tra i primi a sottolineare l’importanza della riproduzione fotografica per preservare gli originali).

Allo stesso tempo però aveva chiara l’importanza della fotografia per l’editoria, legandola subito alla riproduzione a stampa. Riconoscendo i limiti tecnici e l’instabilità del calotipo, che tende precocemente a svanire, nel 1852 Talbot brevetterà la fotoincisione, il trasferimento di una immagine fotografica su una matrice di metallo inchiostrabile, con cui salda la tradizione antica della grafica e quella nuova.+

Sono però ancora calotipi le immagini che Talbot raccoglie in The pencil of nature, il suo opus magnum. Progettato in dieci fascicoli di cui ne furono pubblicati solo sei tra il 1844 e il 1846, è una esplorazione delle possibilità tecniche e dei soggetti a cui la fotografia poteva applicarsi. Oggetti allineati sugli scaffali, opere d’arte, manoscritti e disegni (dimostrando così le potenzialità della riproduzione per contatto) ma anche architetture e paesaggi secondo l’estetica del pittoresco e della pittura di genere. Da qui Talbot non emerge solo come scienziato e tecnologo. Per quanto il titolo, “la matita della natura”, suggerisca una sorta di automatismo della scrittura fotografica, una correlazione diretta tra soggetto fotografato e oggetto fotografico in assenza di mediazione, Talbot applica subito una visione autoriale al mezzo, anticipando molti dei codici adottati dalla fotografia nei tempi a venire.


Modena, Gallerie Estensi
L’impronta del reale
William Henry Fox Talbot. Alle origini della fotografia
Fino al 10 gennaio

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