lunedì 15 novembre 2021
Così nel 2017 lo scrittore sudafricano recentemente scomparso spingeva a scoprire un mondo letterario oltre la negritudine e il colonialismo. E rimandava alla lezione di Pasolini
Lo scrittore Wilbur Smith nel 2011 a Roma

Lo scrittore Wilbur Smith nel 2011 a Roma - Ansa

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Pubblichiamo un'intervista a Wilbur Smith, il celebre scrittore sudafricano di bestseller scomparso sabato scorso, realizzata nel 2017 in occasione di una presentazione dell'autore presso la Libreria "I Granai" di Roma. Il testo è stato pubblicato soltanto nella newsletter per gli studenti dell'Università Lumsa, curata dall'autrice, Dorella Cianci.

Non c’è un angolo del Pianeta che non conosca i suoi romanzi, così densi di avventura e intrecciati a una vita personale continuamente in viaggio, fra fondali marini e riserve di caccia, fino all’acquisto di un’isola dove trascorrere la vita. Tuttavia, qualche volta, per i critici letterari, la sua versione di Africa è risultata fin troppo legata a stereotipi ancestrali, che magari non tengono conto della situazione attuale, di quelle dinamiche di grave disagio. Ovviamente il suo immaginario è artistico, narrativo, incasellato in un genere ben preciso, ma che cosa risponderebbe alla critica?

«Grazie per questa domanda, che mi offre l’occasione di approfondire, ben più di quel che ho risposto in altre occasioni. Io conosco l’Africa dal di dentro, dalla vita quotidiana e non solo per l’ottica narrativa. Conosco l’Africa e i suoi miti, le sue fiabe, le sue ricette e penso che, molto spesso, è proprio quella narrazione iper-focalizzata sui disagi che tradisce la complessità di quei territori, che, invece, sono tante Afriche insieme. Nel ’69, come forse qualcuno ricorderà, ci fu un noto festival ad Algeri sulla letteratura africana. In quell’occasione venne fuori come questa letteratura si nutre concretamente di un retroterra molto più ampio, fatto anche di sculture, danze, musiche… L’africanismo deve provare a uscire dal binomio obbligato con il dibattito politico e sociologico. Ci sono autori che corrono paralleli rispetto ai danni del colonialismo, rispetto alle difficoltà della scolarizzazione, rispetto alla lotta armata per la liberazione. Esiste anche un tipo di letteratura africana che rifiuta la cosiddetta “negritudine”, rifiuta l’ideologia della decolonizzazione e si serve del neocolonialismo. Non sto né da una parte né dall’altra, ma ho l’esigenza di far presente come lo sguardo deve sempre andare in diverse direzioni».

E lei allora da che parte sta? Come colloca i suoi tanti romanzi?

«Dall’ottica di un Sud Africa che riesce sempre a farcela, nonostante le difficoltà. Scrivo avendo ben a mente i nostri meravigliosi paesaggi, che sono letteratura vivente, orizzonti reali e immaginifici al tempo stesso, permeati di un mito che non ha tempo, ma ha una collocazione spaziale. Non mi piace piegarmi alla logica dell’uomo “ferito nel suo passato e nel suo avvenire”, proprio per citare quei giorni del 1969. La mia visione si discosta molto anche da quella di Leopold Sédar Senghor, il quale riteneva la cultura (e anche la letteratura) un fatto sociale. All’Università del Cairo, alla fine degli anni ’50, lui disse che la letteratura proveniente da contesti africani doveva essere di “una certa maniera”. Non ho mai condiviso questo principio, anche se mi son sempre impegnato per un’idea di eliminazione delle gerarchie fra le cultura e anche fra le diverse letterature. Non seguo una letteratura impegnata e sono convinto che i miei libri servano anche a rilassare i pensieri; tuttavia il mio impegno per l’Africa consiste soprattutto nel far assaporare la sua bellezza».

Dialogando con una suora dello Zambia, durante una lezione, mi sono resa conto che l’etnocentrismo culturale occidentale, spesso, è convinto che tutti i luoghi della Terra abbiano gli stessi riferimenti culturali. Poi, attraverso questa donna, e non solo, mi sono resa conto che esistono luoghi in cui Socrate non vuol dir nulla. Da quel giorno cerco di non assolutizzare mai neanche i più grandi filosofi. Lei che riferimenti culturali ha avuto?

«Guardi, condivido tantissimo l’idea di decentrarsi sempre. Io, per esempio, ho letto e amato Castro Soromenho, la letteratura ambientata in Camerun, come Il vecchio negro e la medaglia. Per esempio in quest’opera emerge la spensieratezza di alcune tribù africane, stroncata, in alcuni momenti, dalla mano coloniale. Consiglio di leggere lo humour di Mongo Beti o Damas, autore formatosi perlopiù in Francia e attento osservatore delle forme di vita primitive della Guinea. Tutto questo fa parte del mio bagaglio di letture, ma anche della mia visione culturale di alcuni posti dell’Africa. Solo di alcuni, ripeto».

La poesia africana, però, è tutta molto concentrata su temi sociali e sul disastro del colonialismo; lì non si può proprio ignorarlo e non si può prescindere dal binomio letteratura e difficoltà sociali, che lei a volte contesta.

«Non sono un esperto di poesia, neanche di quella africana, ma i più grandi poeti di quel continente hanno parlato spesso, come segnala lei, del dolore di tante genti, di tante madri. Su questo vorrei fornire, in chiusura, due consigli bibliografici: il nero statunitense Marshall Davis e le parole di Pasolini nella prefazione ai volumi “Letteratura negra”, usciti, proprio in Italia, negli anni ’60 e curati da De Andrade. Dalla sua Medea in poi, Pasolini è stato uno dei migliori interpreti dell’essenza africana, contestando i “discepoli del Progresso”».

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