Marianne Werefkin, «Domenica primaverile» (1907) - .
Un ménage che era artistico ma fu, per quasi trent’anni, anche spirituale, amicale, erotico, ideale, con una inclinazione "pura", almeno da parte di lei, Marianne Werefkin. Secondo la moglie di Paul Klee che conobbe entrambi e li frequentò, quello che Alexej Jawlensky ebbe con la sua compagna fu un «amore amicale eroticamente platonico». La definizione calza bene, anche se sicuramente per un certo periodo questo amore platonico ebbe risvolti carnali. Trattandosi di due artisti nati in Russia, nella periferia di Mosca, in epoca zarista, lei nel 1860 lui nel 1864, questa spiritualità può essere ben riassunta da un celebre aforisma di Marina Cvetaeva del 1923: «l’anima, che per l’uomo comune è il vertice della spiritualità, per l’uomo spirituale è quasi carne».
La mostra che Ascona dedica fino al 10 gennaio a questo sodalizio umano e artistico – terza tappa dopo Monaco e Wiesbaden – ci racconta di una unione controversa, combattuta se vogliamo, un conflitto di caratteri, forze ed energie che ha dato forma a due esperienze pittoriche assai diverse, sia pure in una temperie comune, quella dei primi decenni del secolo fra avanguardie e ricerche individuali che anche quando non aspirano alla rivoluzione sono portatrici di nuovi linguaggi – basti dire che i luoghi frequentati dai due artisti erano Monaco, Parigi, Berlino, San Pietroburgo, cioè i centri maggiori di elaborazione delle novità –; esperienze diverse, che in certi momenti sembrano procedere in parallelo, tenute insieme, ecco ancora la Cvetaeva, proprio dall’anima russa dei protagonisti. Per cui quando nel primo paragrafo del suo saggio nel catalogo della mostra il curatore Roman Zieglgänsberger definisce il sodalizio fra Marianne e Alexej quello di «una coppia stonata» si resta perplessi, tuttavia, alla fine, a me pare che sia più di una boutade perché definisce un rapporto carico di sentimento, ma anche condotto sul filo del rigore nella elaborazione della pittura.
Sono uscito dalla mostra allestita al Museo comunale d’arte moderna, dove vengono presentati in sezioni temporali e gruppi omogenei le opere dei due pittori, convinto che lei, Marianne, fosse la più dotata di talento, la più capace di tradurre l’anima russa in un linguaggio che teneva conto degli sviluppi europei, senza dimenticare il retroterra arcaico del mondo d’origine, con le sue mitologie e i suoi simboli più lontani – anni fa a Firenze organizzarono una mostra sull’avanguardia russa dove per una volta anziché sottostare al luogo comune delle dipendenze dagli artisti europei si ponevano in risalto i retaggi visivi e antropologici pagani che avevano ispirato l’opera di artisti come la Goncharova o Larionov –; Marianne era la rivoluzionaria ma senza cedere alle semplificazioni dell’astrattismo e anzi mantenendo un aggancio con la tradizione popolare e con i suoi riferimenti alla cultura magista e alle riduzioni formali che talvolta sfiorano persino il naïf. Certe elaborazioni più tarde della Werefkin mi hanno persino fatto pensare alle simbologie psichiche che si riversano nel Libro rosso di Jung (e del resto i due russi ebbero ad Ascona anche rapporti col Monte Verità: a questo fa pensare un dipinto a tempera su carta di Marianne intitolato Fuochi fatui del 1919).
È negli anni precedenti e seguenti la Grande Guerra che i due artisti approdano a risultati maturi (ormai entrambi più che cinquantenni). Marianne proseguirà su una strada che la porterà a rendersi sempre più "primitiva", arcaica e popolare insieme, a indagare le mitologie del cosmo trasferendole però su questa terra (si veda La città dolente del 1930, che sembra in realtà una città fantasma sigillata tra alte montagne, con in primo piano tre figure femminili in preghiera; oppure Il levar del sole, o ancora La Via Crucis e Le vergini folli del 1921, anno in cui ruppe i rapporti col compagno, o infine La miniera del 1926, dipinti dove il rimando a Van Gogh o a Gauguin è perfettamente assimilato senza dipendenze pedisseque).
La storia di questi due artisti s’intreccia con gli sviluppi delle avanguardie d’anteguerra: a Parigi Matisse e i fauves, nel 1909 a Monaco con l’associazione artistica NKVM (Kandinskij presidente, Jawlensky vice), oppure il Cavalliere azzurro. Leggendo la biografia di Marianne e Alexej si comprende quanto la frequentazione di questo milieu europeo li abbia non tanto fatti nascere, quanto abbia precisato la loro direzione, il tiro per dir così, e come li abbia messi di fronte a una rivoluzione che avrebbe potuto soverchiare artisti meno forti e consapevoli di loro e che invece fu il terreno sul quale innestare quel sentire particolare che veniva appunto dalla madre Russia.
I due artisti erano rampolli di famiglie appartenenti all’establishment militare: quella di Marianne era assai vicina al potere zarista, mentre quella di Jawlensky era di rango inferiore. Entrambi scoprirono presto la loro vocazione artistica, lui alla scuola per cadetti di Mosca venne educato al disegno e fino ai diciotto anni si recò spesso alla Galleria Tret’jakov; lei dai 13 ai 19 anni visse seguendo gli spostamenti del padre nell’esercito, fra Vitebsk e Vilnius, e imparò a parlare correntemente tedesco, inglese e francese. A quattordici anni si rivelarono le sue doti per il disegno, e poi studiò pittura anche a Varsavia. Marianne e Alexej si conobbero attraverso il pittore Il’ja Repin, grande maestro del realismo russo, amante della pittura rembrandtiana, che fu anche il loro insegnante per un certo periodo. L’incontro avvenne nel 1892 quando Repin accompagnò Jawlensky in visita alla Fortezza di Pietro e Paolo di San Pietroburgo comandata dal padre di Marianne. Simpatia immediata fra i due ragazzi, inizio di una lunga storia che verrà a guastarsi solo quando Alexej conosce la cameriera di Marianne (la sua famiglia ebbe fino a 18 servitori), la seduce, la mette incinta e, a quel punto, il ménage diventa a tre e poi a quattro quando nasce il bambino.
Ci si chiederà perché Marianne non abbia lasciato subito Jawlensky. Ecco, è una storia interessante di segno femminile. Lei già nel 1896 aveva deciso di abbandonare la pittura per dedicarsi tutta al perfezionamento artistico del suo compagno, organizzando attorno al "salotto rosa" che avevano a Monaco una corte di intellettuali e artisti che avrebbero potuto aiutare Alexej a emergere. Una scelta volitiva, di sacrificio, ammirevole ma dettata dalla convinzione – forse potrà sembrare una sottomissione al maschilismo dell’epoca – che se si deve fare la rivoluzione in arte questa può arrivare soltanto da un uomo: così per dieci anni il suo compagno diventa lo “strumento Jawlensky”, che potrà portare quella novità a cui lei ambisce e che spiegherà bene nel libro Lettres à un Inconnu – manifesto teorico scritto tra il 1901 e il 1905, dove immagina un espressionismo come creazione pura, libera dalla zavorra del reale e cosciente delle potenzialità interiori dell’artista.
Marianne si trasforma in maieuta spirituale, artistica e promozionale del suo compagno. Il quale però nel 1921 sposa Helene per dare una paternità riconosciuta al figlio che aveva avuto da lei. Marianne non l’accetta e si separa dal compagno. Non si rivedranno più fino alla morte (lei nel 1938, lui nel 1941). Nel periodo successivo lui cresce molto nella notorietà, si afferma per quei "volti" che comincia a dipingere dopo la fine della Grande Guerra, più prossimi alla spiritualità lirica russa. Opere che corteggiano l’astrattismo e le scomposizioni strutturali care alle avanguardie più razionali, ma hanno dentro una poesia del colore che certamente Jawlensky deve anche al magistero di Marianne. Senza nulla togliere a questi volti che evocano antiche icone, credo che si debba risarcire Marianne Werefkin per ciò che ha trasmesso a Jawlensky ma anche per ciò che ci ha lasciato in termini di poesia pittorica e liricità compositiva, di cui è prova sublime la tempera su carta Domenica primaverile del 1907.