martedì 17 aprile 2018
Pubblicato in italiano il carteggio dei primi mesi del 1940 tra i due fratelli, il matematico e la filosofa sulla natura dei numeri
Simone Weil, a destra, con il suo fratello maggiore André (Archivio Giovannetti/Effigie)

Simone Weil, a destra, con il suo fratello maggiore André (Archivio Giovannetti/Effigie)

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Sorella e fratello. Lei tra i grandi filosofi del Novecento. Lui tra i grandi matematici. Simone e André Weil, diversi nel carattere, nelle inclinazioni e nelle passioni, si scambiano tra il febbraio e l’aprile del 1940 una manciata di lettere ora raccolte da Adelphi in L’arte della matematica (pagine 186, euro 14,00), da oggi in libreria e di cui pubblichiamo, per concessione dell’editore, due brevi estratti che permettono di cogliere il tenore della riflessione dei fratelli. Benché il loro epistolario risalga già al 1927, le missive date ora alle stampe recano una cifra particolare. Nate in occasione della reclusione di André al carcere di Le Havre e poi a Rouen per espiare la condanna di renitenza alla leva, portano a riflessione un tema interessante per entrambi seppure per esigenze diverse: il significato di proporzione e incommensurabilità tra i numeri. «Visto che di tempo ne hai anche troppo – scrive con ironia Simone –, un’altra buona occupazione potrebbe essere metterti a riflettere sul modo di far intravedere a profani come me in che cosa consistano esattamente l’interesse e la portata dei tuoi lavori». «Quanto a parlare delle mie ricerche o di qualsiasi altra ricerca matematica ai non-specialisti – ribatte il matematico – tanto varrebbe spiegare una sinfonia a dei sordi, mi sembra».

Eppure quella che doveva essere la fine di ogni discussione ne diventa l’incipit. Con sedici intense pagine di storia della teoria dei numeri e di riflessione sul ruolo dell’analogia nella scoperta matematica, André offre alla sorella ulteriori spunti per quanto le sta a cuore. Intrecciando i fili di filosofia e matematica la conversazione a distanza tra i due attinge un campo che eccede entrambe le discipline. Nelle lettere, malgrado l’iniziale ritrosia, alla parola giungono problemi come la nozione di numero e di rapporto ( logos), di analogia e di proporzione, di commensurabilità e di incommensurabilità. Da lì il passo verso la sapienza misterica, l’orfismo e il pitagorismo pare breve e evidente. Soprattutto per Simone, persuasa che l’assillo della matematica greca fosse non il calcolo ma il raggiungimento della purezza dell’anima. «“Imitare Dio” ne era il segreto; lo studio della matematica – ribatte al fratello – aiutava a imitare Dio in quanto consideravano l’universo come sottomesso alle leggi matematiche, il che faceva del geometra un imitatore del legislatore supremo», un artista capace di rendere sensibile «l’affinità tra la mente umana e l’universo » e dunque offrire «il mondo come la città di tutti gli esseri dotati di ragione».



La geometria greca misura il mistero
Simone Weil

Possiamo chiederci perché i Greci si siano tanto applicati allo studio della proporzione. Si tratta senz’altro di una preoccupazione religiosa, e di conseguenza (dato che si tratta della Grecia) in parte estetica. Il legame fra le preoccupazioni matematiche da un lato e quelle filosofico-religiose dall’altro, legame la cui esistenza è storicamente attestata per l’epoca di Pitagora, risale certamente a molto tempo prima. Infatti Platone, che è estremamente tradizionalista, dice spesso: «Gli uomini antichi, che erano molto più vicini di noi alla luce...» (alludendo evidentemente a un’Antichità ben più remota di quella di Pitagora); d’altro canto affiggeva sulla porta dell’Accademia: «Nessuno entri qui se non è geometra », e diceva: «Dio è un perpetuo geometra». Fra i due atteggiamenti vi sarebbe contraddizione – il che è da escludersi – se le preoccupazioni da cui è nata la geometria greca (in mancanza di questa stessa geometria) non risalissero a un’Antichità remota; si può i- potizzare che provengano o dagli abitanti preellenici della Grecia, o dall’Egitto, o dagli uni e dall’altro. Del resto l’orfismo (che ha questa duplice origine) ha ispirato il pitagorismo e il platonismo (che sono in pratica equivalenti) al punto che ci si può domandare se Pitagora e Platone non abbiano fatto altro che chiosarlo. Quasi sicuramente Talete è stato iniziato ai misteri greci ed egizi, e di conseguenza, dal punto di vista filosofico e religioso, era immerso in un’atmosfera analoga a quella del pitagorismo. Penso dunque che la nozione di proporzione sia stata fin da un’Antichità abbastanza remota oggetto di una meditazione che costituiva uno dei procedimenti di purificazione dell’anima, forse il procedimento principale. È fuor di dubbio che questa nozione era al centro dell’estetica, della geometria, della filosofia dei Greci. (Dalla lettera, probabilmente del marzo del 1940, di Simone Weil al fratello André) © 2012 Éditions Gallimard, Paris © 2018 Adelphi edizioni s.p.a., Milano


Dietro i numeri nessun abisso
André Weil

Quel che dici sulla proporzione suggerisce che agli inizi del pensiero greco si sia avuto un sentimento della sproporzione fra il pensiero e il mondo (e, come dici tu, fra l’uomo e Dio) di un’intensità tale che hanno avuto bisogno di gettare a ogni costo un ponte al di sopra di quell’abisso. Che abbiano pensato di trovare quel ponte (e solido, e incrollabile) nella matematica non è minimamente credibile. O almeno può essere stato vero per certe scuole; lo spirito di Eschilo, che era stato iniziato ai misteri di Eleusi, mi sembra abbastanza diverso. Ma si sa che con l’espediente dell’esoterismo si spiega tutto ciò che si vuole... Gli Indù invece hanno cercato in tutt’altra direzione: dire che l’uomo è identico a Dio, all’universo, ecc. dispensa evidentemente dal costruire un ponte. Mi domando tuttavia se per Platone (nel quale, mi pare, non c’è la minima traccia di angoscia, e forse per questo Nietzsche lo odiava tanto) la frase «nessuno entri qui...» non sia da interpretare, molto più piattamente, nel senso che la matematica è «una ginnastica della mente»: queste parole, che in noi evocano solo idee di una scoraggiante banalità, potevano avere un significato forte per chi vedeva nella ginnastica ben altro, rispetto a noi. Del resto tutto ciò non sarebbe che una sorta di trasposizione, su un piano più banale (com’è opportuno quando si tratta di quell’epoca) e più secolare, della tua ipotesi sulla proporzione come procedimento di purificazione, se con ciò intendi (come presumo) un procedimento, un mezzo in certo qual modo ausiliario. Ma vorrei sapere in maniera un po’ più precisa: un mezzo in vista di che cosa? Vi è traccia, in epoca arcaica, di pratiche ed esercizi mistici? (Dalla lettera del 28 marzo di André Weil alla sorella Simone) © 2012 Éditions Gallimard, Paris © 2018 Adelphi edizioni s.p.a., Milano

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