domenica 1 dicembre 2019
RaccoltI in volume tutti i saggi del grande storico tedesco sui miti astrali: dalle antiche civiltà, agli affreschi ferraresi di palazzo Schifanoia, alle implicazioni rinascimentali
Francesco Dal Cossa, «Mese di Aprile» (Ferrara, Palazzo Schifanoia, particolare)

Francesco Dal Cossa, «Mese di Aprile» (Ferrara, Palazzo Schifanoia, particolare)

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Max Picard, pensatore di lingua tedesca di cui Vita e Pensiero ha appena ripubblicatoLa fuga davanti a Dio , notò che nel Medioevo «si parlava ben poco dei quadri dei maestri, erano i quadri che parlavano». All’epoca, conclude, erano «i quadri che guardavano gli uomini». L’idea di ridurre il significato di un’opera d’arte visiva a un’analisi condotta con criteri scientifici è forse la grande illusione dello strutturalismo (in tutte le sue forme) e anche l’iconologia in buona parte comincia a risentirne quando i discepoli di Aby Warburg – su tutti Panofsky – pretesero di farne appunto una scienza delle immagini e non più, come era in fondo nelle intenzioni del precursore, una “filosofia del sospetto”. Come scrisse Ernst Gombrich a metà degli anni Sessanta del secolo scorso, «Warburg non fu warburghiano».

Probabilmente aveva ragione Enrico Castelli quando nel 1972 scriveva che «il problema della demitizzazione è il problema stesso della tecnica... Al di là della tecnica non è possibile andare». Che, a voler essere conseguenti, è il grado zero dell’immanenza. Da cui, concluse Castelli, la ricerca del significato è una sorta di lavoro mentale che svolgiamo quando il senso ci appare chiaro al punto tale da essere, in realtà, anche sospetto: “docetismo linguistico” ovvero quando un linguaggio vuole porsi fuori dalla storia e nella sua smania di rendere assoluto ciò che ha una propria relatività, finisce per imporgli un doppio senso che copre quello reale. Warburg è schiacciato fra le due valve di questa conchiglia, e pur cercando il senso dietro le immagini finisce spesso per definire un percorso sintattico dove tutto sembra chiaro perché la macchina del linguaggio funziona, in realtà resta da vedere se quanto emerge sia davvero il disvelarsi di ciò che la storia ha occultato. Warburg, in certo modo, è un decostruttore al pari – mezzo secolo dopo – di Derrida.

Ora si rende disponibile al lettore italiano un volume che raccoglie tutti gli scritti di Warburg – dal 1908 al 1929, anno della sua morte – sull’astrologia. Luogo fondamentale dell’iconologia, lo studio delle simbologie astrologiche, in particolare dopo il saggio di Warburg del 1912 sugli affreschi dei Mesi nel ferrarese palazzo Schifanoia. Gli scritti più importanti erano già disponibili in precedenti edizioni, ma qui sono tradotte anche molte pagine inedite dello studioso, spesso si tratta di appunti, un mezzo fondamentale per capire i gradi di sviluppo del pensiero e della conoscenza di un autore. Curato da uno tra i massimi esperti dell’opera warburghiana, Maurizio Ghelardi, per la collana “I Millenni” di Einaudi (Astrologica. Saggi e appunti, pagine LXXX + 438, 110 ill.) è con un certo disagio che si deve segnalare la mancanza, in un volume così importante, di un indice dei nomi. Ero, per esempio, interessato a vedere rapidamente quanto potesse aver inciso su questi studi warburghiani il libro di Franz Cumont Le religioni orientali nel paganesimo romano, la cui prima edizione se non erro è del 1906, dove a un certo punto si afferma che «l’astrologia fu veramente la prima teologia scientifica». Nel senso che si pensava che la natura fosse ordinata da Leggi immutabili e che esistesse un rapporto vincolante fra causa ed effetto; in questo senso, l’astrologia e la magia naturalis, coltivate da rinascimentali come Pico e Ficino, erano considerate delle scienze.

Ghelardi, ripercorrendo i rapporti precoci di Warburg con lo storico delle religioni Hermann Usener e, da studioso già affermato, con Ernst Cassirer, cerca di dimostrare quanto Warburg sia ben più che un iconologo, quanto piuttosto un onnivoro ricercatore che studiando forme e simboli intende fondare una Kulturwissenschaft applicata alle immagini. Ma – qui starebbe la sottovalutazione fino a oggi – Warburg, secondo Ghelardi, si rivela propriamente un filosofo che dissemina le sue briciole di pensiero dentro un’opera frammentaria ma coerente (del resto, la crisi dei “grandi racconti” si intuiva già con l’affermarsi delle teorie evoluzioniste). Non si vuol negare affatto che Warburg avesse una “filosofia” a guidarlo nelle sue incursioni dentro le immagini, ma se si leggono le sue pagine si avverte continuamente come egli proceda ponendo davanti a sé una lanterna che gli schiude passo su passo una traccia su cui procedere nella notte e lo rende simile piuttosto a un veggente, o a un rabdomante, ovvero, come mi è capitato di scrivere, a uno “sciamano delle immagini”. E questo, a mio parere, si concilia maggiormente col continuo rifarsi di Warburg alla psicologia e all’antropologia, che culmina nell’idea della polarità del simbolo (la polarità non come contrapposizione ma come mobilità del significato rispetto alla sua oggettivazione: su questo crinale lavorò anche Jung con la sua teoria dell’archetipo).

Nel saggio introduttivo Ghelardi parla spesso di simbolo, così che se Usener diventa un indagatore, dei Göttenamen (i nomi degli dèi) e dei docetismi del linguaggio, Cassirer ne rappresenta il versante della chiarificazione illuminista dove il mito si scioglie in linguaggio, e Warburg quello della demitizzazione delle immagini che riscopre l’impulso selvaggio e l’origine dei simboli come cristallizzazione dell’esperienza umana. Tutto questo, in modi certo differenti, nasce dentro il solco del comparativismo religioso- storico-culturale di fine Ottocento.

Warburg proprio alla fine secolo compie un viaggio nell’America del Nord e scopre i rituali degli Hopi, una popolazione nel Nuovo Messico, e in particolare quello del serpente che sarà al centro di una sua celebre conferenza; ne riemerge convinto di poter studiare il paganesimo antico greco e romano avendo come sfondo probatorio i rituali dei pagani di oggi. Idea suggestiva, fondata tuttavia su una fenomenologia che assimila facilmente sintassi e semantica, ingenuamente ripresa dagli studi storico-religiosi del suo tempo. Questo “paralogismo” empirico non toglie che quando Warburg studia gli affreschi di Palazzo Schifanoia sui Mesi, dipinti da Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti, e svela le simbologie di quella costruzione astrologica, riesca a farne emergere il significato nascosto; così quando affronta il tema della divinazione pagana nella pubblicistica al tempo di Lutero, chiarifica anche i fattori mitologici (attraverso la magia e la teratologia) interni al pensiero della Riforma.

All’origine della ricerca di Warburg c’è l’esperienza della propria interiorità turbata (in una lettera, citata dal curatore, lo psichiatra Binswanger che aveva in cura Warburg, riassume a Freud lo stato del suo paziente: «Già durante l’infanzia ha avuto sintomi di angoscia e di ossessione; aveva manifestato idee deliranti nel periodo in cui era studente e non si era mai liberato da timori e rituali ossessivi... »). Lo spazio non consente di toccare il tema della malattia di Warburg per misurarne la forza di spinta sul suo genio (si potrebbero citare Van Gogh e Nietzsche e forse gli studi di Jaspers sul pittore aiuterebbero a illuminare anche come agisca su Warburg il demone che gli turba la mente: ancora Gombrich scrisse che a un certo punto lo studioso aveva compreso che «un simbolo serve a circoscrivere un terrore senza forma»). Se era fonte di un’antica sapienza l’idea che gli dèi non possono essere rappresentati, Warburg ha sempre considerato nelle immagini quel “dettaglio” dietro cui Dio si nasconde. Metodo del sospetto o ipersensibilità patologica?

L’astrologia, come ricorda Ghelardi, era un sistema ambivalente, dove il calcolo scientifico doveva misurarsi con altri principi meno scientifici e sostanzialmente simbolici. LaSpheara Barbarica di Franz Boll aveva guidato Warburg a cercare la sintesi fra le «due culture». Ma il primo demitizzatore e anticipatore della critica warburghiana fu, paradossalmente, il predicatore domenicano Savonarola. Agli inizi del XV secolo il vescovo veronese Ermolao aveva indirizzato una filippica “contro i poeti” che parlavano di cose più che licenziose introducendo nei loro componimenti figure e miti del paganesimo: alla fine del secolo, nel 1497, qualche mese prima di finire al rogo, Savonarola scrisse invece un j’accuse Contro gli astrologi, cioè contro quelli che predicono il futuro e l’apocalisse leggendo le stelle. Savonarola combatteva l’irrazionalismo dei venditori di apocalissi, Warburg utilizzava la sua schizofrenia per allontanare il “terrore senza forma” riemerso prepotente nella modernità con la Grande Guerra. Quando si legge Warburg si ha la sensazione di ricevere più informazioni sulla cultura del suo tempo in rapporto al funzionamento del mito e delle forme simboliche, di quante se ne traggano sull’origine degli stessi. In questo senso, anche la “forma simbolica” di Cassirer o il Pathosformeln di Warburg diventano documenti storici della mentalità da considerare come elementi nuovi per una storia della ricezione.

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