venerdì 18 aprile 2014
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Centomila negativi, 700 rullini a colori e 2000 in bianco e nero non sviluppati, per altrettanti scatti. È il tesoro che il giovane agente immobiliare John Maloof, fotografo dilettante, scopre a Chicago nel 2007, comprando uno scatolone a soli 380 dollari durante un’asta di quartiere. Gli servono foto per il libro che sta scrivendo sulla sua città. Ma tra le mani si ritrova una delle più grandi collezioni di street photography, realizzata tra New York e Chicago da una donna misteriosa, Vivian Maier, con il curriculum di babysitter. La scoperta di Maloof è avvincente. A tal punto che inizia per lui una vera indagine sulla vita di questa donna, celibe e riservata, morta a 83 anni nel 2009. Prima che Maloof riesca a incontrarla. Un’indagine, lunga e articolata, che si trasforma in un documentario Alla ricerca di Vivian Maier che, realizzato nel 2013, attira l’interesse di festival internazionali e da ieri è arrivato nelle sale italiane, grazie a Feltrinelli Real Cinema. Maloof, insieme a John Silker (uno sceneggiatore che ha lavorato anche per Bowling a Columbine, il documentario premio Oscar di Michael Moore) riesce nell’intento difficile di costruire un percorso narrativo fluente dove l’arte della fotografia si intreccia al personaggio della Maier. Chi si nasconde dietro quelle fotografie mai sviluppate, quelle stanze personali sempre chiuse, quelle pile di giornali conservate? Collezionista dell’inutile, come denti e scontrini, Maier rivela, attraverso la sua opera, uno straordinario talento: le fotografie, scattate soprattutto con la Rolleiflex (la storica fotocamera tedesca biottica, un obiettivo per la ripresa e l’altro per l’inquadratura) sono allo stesso tempo immediate, spontanee, eccentriche.Talmente immediate che registrano, con una naturalezza che rivela studio e sapienza, l’essenza dei volti delle donne e degli uomini che incontra. E talmente eccentriche che riescono a cogliere la realtà di tutti i giorni negli attimi "fuggenti", nella distrazione di una donna ricca, nel pianto di un bambino chiuso nel suo impermeabile perfetto, nell’uomo di colore che cavalca lentamente un cavallo per le strade della città. E mentre regala le espressioni di emarginati, senza tetto, giornalai addormentati, la Maier svolge il suo lavoro di babysitter, portando con sé, anche nei quartieri più poveri, i bambini. Fotografandosi con o senza di loro, in immagini che rivelano un senso profondo dello spazio, della luce e delle ombre, Vivian Maier costruisce i primi veri autoritratti, i selfie del XXI secolo. Che, diversamente da quelli odierni, non condividerà mai con alcuno.«Sapeva entrare nello spazio di uno sconosciuto, grazie anche all’obiettivo della camera» spiega il fotografo newyorkese Joel Meyerowizt: «Guardando il suo lavoro ti accorgi che il suo occhio era autentico, era una vera esperta della natura umana, della strada, della vita».
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