giovedì 17 marzo 2022
La rabbina francese Delphine Horvilleur, una delle voci ebraiche più ascoltate oggi, dedica il suo ultimo libro ai riti di passaggio e al rapporto con l’Aldilà. Storie dell’ultima soglia
I membri della comunità ebraica cantano il Kaddish nella sinagoga di Rykestrasse a Berlino, nel novembre del 2018, per ricordare l’ottantesimo anniversario della Notte dei Cristalli

I membri della comunità ebraica cantano il Kaddish nella sinagoga di Rykestrasse a Berlino, nel novembre del 2018, per ricordare l’ottantesimo anniversario della Notte dei Cristalli - Ansa

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Spesso si dice che le religioni oggi sono afone sulle questioni ultime: vita, morte, aldilà. Solo sporadicamente la teologia si inerpica sugli ardui sentieri del giudizio, dell’inferno e del paradiso. È dunque da apprezzare la scelta di una delle più originali voci dell’ebraismo contemporaneo oggi in Europa, la rabbina francese Delphine Horvilleur, di dedicare il suo ultimo libro proprio alla riflessione sulla fine della vita: Piccolo trattato di consolazione.Vivere con i nostri morti (Einaudi, pagine 160, euro 16.50). En passant: la scelta operata dall’editore italiano è un piccolo "tradimento" dell’originale francese, dove il sottotitolo – molto più forte ed evocativo – fungeva da titolo, e viceversa.

Ma resta il libro. Che è di quelli importanti e corrobora il pensiero. Già, perché non c’è niente di così ossimorico che vivere con le persone che non sono più. E al contempo – ne facciamo esperienza tutti – non c’è niente di più reale che il ricordo e l’amore "memorioso" (Francesco dixit) verso i nostri cari che non sono più con noi su questa terra. Ma sono ancora, dice la Bibbia. Alla quale Horvilleur si rifà, con quella sagacia tutta ebraica di far risuonare, meglio "cantare", la parola scritturistica ebraica. Nella quale rimandi fonetici, assonanze lessicali ed echi nascosti generano una sapienza umana straordinaria, eloquente e istruttiva soprattutto per l’uomo postmoderno, fermo e attonito di fronte alla piattezza di un linguaggio che rimano muto sulla realtà.

Horvielleur – i cui libri sono molto letti in Francia e straboccano dalle librerie – sa bene di cosa parla: per il suo mestiere è costantemente convocata a officiare il rito del kaddish, cioè l’ultimo saluto ebraico. Anche da chi la fede non la professa più. E subito annota una presa di posizione liturgica che ha del vero: «I riti del lutto esistono per accompagnare i morti ma ancor di più per accompagnare coloro che restano. La cerimonia deve permettere loro di attraversare una prova, quella cioè della sopravvivenza, cui per definizione non è il morto a essere sottoposto». (E qui ci potremmo domandare se una certa freddezza asettica dei riti cattolici voglia dire fare esperienza di consolazione, o meno. Ma questo per un altro giorno…). A chi di mestiere benedice il momento della fine faranno bene queste parole della rabbina transalpina: l’importante è «saper raccontare ciò che è già stato detto mille volte eppure saper dare a colui che ascolta la storia per la prima volta delle chiavi inedite per decodificare la propria».

Parla di storie di morte, Horvilleur: il bambino cui è deceduto il fratellino, i funerali di Simone Veil, che fu presidente del Parlamento europeo, la vicenda curiosissima dell’ebrea newyorkese il cui unico intento esistenziale era organizzare il proprio funerale. Ma anche la malattia mortale di una sua strettissima amica. Tutte vicende paradigmatiche di come si possa incontrare la morte. Di quello che la fine ci insegna, di quello che non capiamo di essa e di quello che da essa potremmo capire: «Aprendo gli occhi sulla morte, l’umanità vede dove si trova».

Porto Cervo, celebre località turistica di Sardegna, nota per essere l’emblema di una vita tutta lustrini e divertimento, non ha un cimitero: volontà esplicita di rimuovere la fine della propria esperienza terrena. Ma è una mossa arguta? Rimuovere significa risolvere? Forse il dire "non so" è più razionale di tante certezze squadrate con l’accetta del cinismo: «Gli ebrei sostengono di non sapere quel che c’è dopo la nostra morte. Però potrebbero anche dirla diversamente: dopo la nostra morte, c’è quel che non sappiamo. C’è quel che a noi non è stato ancora svelato».

Lo stiamo vedendo in queste giornate di guerra in Ucraina: se – ci ricorda Erodoto – in tempo di pace sono i figli a seppellire i padri, in tempo di guerra sono i padri a seppellire i figli. La lingua italiana non ha un termine per definire i genitori che restano privati del figlio. Quella ebraica sì: «In ebraico questa parola esiste. Un genitore che perde un figlio è chiamato shakul – termine pressoché intraducibile. Si ricava dal contesto vegetale e significa originariamente il ramo della vite vendemmiato. Un genitore orbato è descritto in ebraico attraverso l’immagine di un grappolo strappato. La linfa cola ma non sa più dove fluire e il butto rinsecchisce perché una parte della sua vita l’ha abbandonato». I genitori del piccolo Kirill ne sono la drammatica conferma, insieme ai tanti che perdono un figlio o una figlia per le ragioni più tragiche, incidenti, malori, malattie.

Cosa può dire una fede come quella biblica a chi perde una persona cara? Prendiamo l’esempio di Mosè, il grande profeta dell’Esodo: «Contrariamente a quanto si è portati a credere, le sacre narrazioni non permettono ai protagonisti di accogliere la morte con più coraggio della gente comune». Ma la vicenda di Mosè diventa anche paradigmatica di ogni fine umana, perché – facendo un’esegesi acuta degli ultimi giorni del profeta – Horvilleur racconta come morì il condottiero d’Israele: «Si è infatti spento "su ordine dell’Eterno", dice il versetto nella traduzione più accreditata. Ma l’espressione al pi Adonay può rendersi anche diversamente, e cioè "sulla bocca" dell’Eterno. Donde la conclusione dei maestri: sulle alture di Moab, di fronte alla Terra Promessa, Mosè ha lasciato questo mondo baciato da Dio. Ha reso l’anima con un bacio divino». Nulla potrebbe rendere più dolce la fine di una persona. Bello e ardente è pensare che questo possa capitare un giorno a ciascuno di noi.

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