sabato 14 marzo 2015
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Un seme qua e là, pochi ma buoni, sparsi per i vari campi. Però sparsi, appunto. E nonostante i virgulti che specie in questo girone di ritorno della Serie A si stanno affacciando al campo restituendo un filo di sorriso ad Antonio Conte, il rapporto tra calcio italiano e giovani rimane in modalità “relazione complicata” per quanto riguarda i vivai, intesi come settori giovanili dei club nella loro complessità, le “cantere”, insomma, giusto per usare il termine spagnoleggiante sdoganato anche in Italia dopo il trionfo della scuola tutta possesso, tecnica e “guardiolismi” assortiti del Barcellona. Barcellona che è stato (ed è) il massimo esempio della coniugazione del potere economico e politico del calcio che conta e di investimento continuo sulle fondamenta tecniche, vale a dire il settore giovanile. E alla faccia di campagne acquisti all’estero che corrispondono a punti di Pil di Paesi poveri – Neymar due anni addietro, Suarez la scorsa estate, qualcuno parla di Pogba alla fine dell’embargo stabilito dalla Fifa –, i blaugrana sono sempre e comunque tra le fabbriche di giovani giocatori più concrete e produttive d’Europa. A testimoniarlo, i numeri diffusi recentemente dal Cies, un centro di studi specializzato in tematiche calcistiche insediato a Neuchatel in Svizzera. Gli esperti elvetici si sono presi la briga di analizzare gli organici di ben 31 campionati di massima divisione del continente, e di fare la conta dei calciatori a seconda del vivaio di provenienza, inteso come club in cui il giocatore abbia militato per almeno tre stagioni negli anni della crescita. Ne è scaturito che la Champions League delle accademie se la sia aggiudicata un’altra garanzia assoluta, cioè l’altro grande top club europeo capace di sfornare campioni a cavallo delle generazioni: l’Ajax, che vanta qualcosa come 77 elementi usciti da Amsterdam per pedatare in ogni angolo del continente. Il suddetto Barcellona invece ha conquistato il gradino basso del podio con 57 calciatori, e in mezzo si è collocato il Partizan di Belgrado, gettonato soprattutto nei Paesi balcanici (74 giocatori). Spontaneo scorrere la classifica, strutturata su una "top 100" e attendere che il dito si fermi su nomi più famigliari: si scende fino alla casella 77 per trovare l’Inter; e quindi alla posizione 89, a cui è assegnata non casualmente l’Atalanta, unica società italiana in cui ancora trovino discreto spazio nella formazione della domenica elementi cresciuti nel club. Due squadre su cento, mica male come percentuale: e i riscontri diventano ancora peggiori quando dai numeri si passa alle cifre, intese come danari. Perché oltre a non riuscire a costruire calciatori da Serie A con continuità, evidentemente le nostre non riescono nemmeno a monetizzare bene i pochi prospetti venuti su ammodo: nella classifica, dei redditi da cessione del cartellino goduti negli ultimi cinque anni - stilata sempre dall’osservatorio di Neuchatel - solo il Genoa (15°) può vantare entrate importanti, pari per l’esattezza a 24,5 milioni incassati per le cessioni di Cofie, Sturaro, El Shaarawy, Boakye e Lazarevic. Poi, due posizioni più sotto, ancora la sempiterna Atalanta, che curiosamente mai come quest’anno è risultata una delle squadre dall’età media più avanzata, quasi a scusarsi, a non volere discostarsi dalla logica "usato sicuro" che è quella adottata dalle consorelle più grandi. La politica dei giovani in Italia, nel suo complesso, continua dunque a essere nelle parole e non nei fatti: se il Cies svizzero si spingesse oltre, vale a dire andasse a indagare dove davvero vanno a finire i 18-20 giovanotti che ogni anno compongono le rose delle squadre Primavera dello Stivale, scoprirebbero un sottobosco fatto di Lega Pro, di Dilettanti, di fughe (o ritorni) all’estero, in chissà quali campionati: non è solo questione di procuratori o di esterofilia spinta - pur presentissima - delle nostre società di punta, ma semmai, e questo è il grave, di valori tecnici che non sono spendibili in Serie A, anche al netto dell’inevitabile scotto del debutto. Uno ogni tanto, quando capita, se è bravo: questa è l’autoproduzione del pallone all’italiana. E va detto che, forse, questo si sta dimostrando un momento buono per i campioncini "spot", dal sampdoriano Romagnoli (vivaio e proprietà Roma) all’empolese Rugani, made in Juve così come lo sfortunatissimo Mattiello, che aveva benissimo impressionato alle sue prime uscite da titolare col Chievo.Accontentiamoci, per ora, di questi semi isolati, sperando che prima o poi vengano gettati in terreni fertili, preparati per coltivazione e produzione. Perché quella della Serie A vecchia negli anni, povera nelle tasche e di seconda mano sul terreno di gioco, diventi presto solo una antipatica e superata fase storica.
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