sabato 3 maggio 2014
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Dovremmo essere scettici riguardo a ogni teoria sul progresso economico che assegni un peso schiacciante a un’esperienza vecchia non più di 250 anni. L’estrapolazione dal passato è un esercizio che fa pensare: lungo l’intero cammino della storia (diciamo per 5.000 anni, fino a 250 anni fa) persino nelle regioni attualmente ricche la crescita economica non superava quasi mai lo zero. Fino al 1500 d.C. la maggior parte delle persone viveva con meno dei proverbiali due dollari al giorno e la popolazione mondiale restava ben inferiore al miliardo. Anche se ora viviamo in un mondo completamente diverso, nelle discussioni contemporanee resta assente lo studio di una possibile retroazione tra povertà, crescita della popolazione e tipologia e rendimento delle istituzioni umane e del capitale naturale.Nel loro insieme le quattro fonti di esternalità da me prese in considerazione (cosumi, ambiente, fertilità e tecnologia) si riveleranno un impedimento alla realizzazione dell’idea di sviluppo sostenibile. Se vogliamo sostenere quell’idea non solo a parole, l’umanità dovrà trovare modi per tagliare la domanda di servizi alla natura. Come minimo questo richiederà che cambino radicalmente le abitudini di consumo delle persone nella parte ricca del ricco. Un’attenzione sia pur minima all’equità implicherebbe che il peso di quel cambiamento fosse sostenuto dagli 1,3 miliardi di persone, più o meno, del mondo ricco. Ciò potrebbe influenzare, in linea di principio, le ambizioni di consumo delle nuove classi medie nelle economie emergenti. E questo ci riporta, chiudendo il cerchio, a un problema centrale con il quale devono confrontarsi le economie moderne: come possiamo scollegare il consumo aggregato dall’occupazione?Noi economisti conosciamo ancora molto poco delle implicazioni macroeconomiche di politiche ambientali che coinvolgano l’intera economia. Gli economisti applicati studiano per lo più dazi sulle esternalità sulla base di singoli casi. Ma le esternalità sono presenti in vario modo a livello locale, regionale e globale. Immaginate che dazi correttivi e sussidi introdotti da un governo per contrastare le esternalità in maniera esaustiva. Che cosa significherebbe questo, a livello nazionale, per la produzione e l’occupazione?Secondo una visione ottimistica, le risorse si troverebbero a essere reindirizzate verso “tecnologie verdi”, che si presume esistano in precisi programmi o ci si aspetta che nascano rapidamente una volta che finanziatori disposti al rischio e imprenditori ci avranno messo la testa. Si sostiene poi che il mix di tecnologie e la composizione dei consumi interni si allineerebbero ai cambiamenti nei relativi prezzi, ma l’occupazione non ne sarebbe toccata. Questa è la famosa visione win-win della politica ambientale.I modelli macroeconomici che includono il capitale naturale sono stati elaborati per lo più per spiare nel futuro remoto. I modelli presuppongono che il breve periodo sia privo di storture strutturali. Anche lo studio degli aggiustamenti settoriali che ci si potrebbero aspettare se in un Paese fossero imposti dazi ambientali, evita di modellare i problemi strutturali di aggiustamento che inevitabilmente sorgerebbero. I problemi si aggravano se immaginiamo sforzi internazionali per contrastare le esternalità ambientali. La teoria delle economie pubbliche richiede che i Paesi collaborino su una politica ambientale (inclusi dazi e sussidi) che miri a eliminare le esternalità locali, regionali e globali in un pacchetto esaustivo. Per quanto ne posso sapere, non è stato fatto alcun tentativo di portare allo scoperto i problemi strutturali che il risultante spostamento dei relativi prezzi creerebbe. Ci dovremmo aspettare conseguenze enormi nella distribuzione di reddito e occupazione all’interno e tra i Paesi. Ma non sappiamo quali esse possano essere.Poiché il capitale naturale è una riserva, l’umanità la può intaccare pesantemente (sia in quantità sia in qualità) per decenni senza avvertire troppa sofferenza globale. E poiché i ritmi di estrazione possono superare per decenni i ritmi di rigenerazione naturale, l’idea di “limiti planetari” non è utile. Parecchi limiti planetari sono già stati superati, ma questo non ha spinto i governi o i loro cittadini all’azione. Ci sono abbondanti casi provati di disastri locali negli ultimi decenni in Africa, Asia meridionale e America Latina. Che possano essere uno specchio su larga scala che rivela i punti critici in agguato è un fatto che alla maggior parte delle persone non piace ammettere.L’assenza di discussione sul tiro alla fune in atto tra il desiderio dell’umanità di una crescita economica convenzionale e la ricorrente protesta della natura è un segno che noi pensiamo che gli ecologisti sbaglino. Ma a causa della presenza di esternalità diffuse, il sistema economico mondiale non dispone di meccanismi di correzione dell’errore in grado di evitare implosioni sociali su larga scala. Fino a quando non metteremo in agenda questi temi, le analisi politiche resteranno tarpate e lo sviluppo sostenibile continuerà a essere un concetto che ammiriamo ma che non possiamo rendere operativo. (Traduzione di Anna Maria Brogi)
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