lunedì 14 marzo 2011
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Nell’ultimo libro edito in Italia, Devi cambiare la tua vita il filosofo tedesco Peter Sloterdijk  ci spiega che le identità  si formano in un esercizio che ha molto a che fare con l’atletica e l’ascetica. Si tratta di ripetere un gesto, un modo, una o più frasi, di ripetere delle pratiche fin quando esse non ci formano, non ci rendono capaci di qualcosa che non è "naturale", "spontaneo", ma lo diventa al punto tale da farci dimenticare l’esercizio che ci ha portato fin lì. Sloterdjik parla di identità religiose, ma in genere parla di identità, e quindi anche di quelle connotazioni del fare e dell’essere che sono le «appartenenze» a una cultura, a una etnia, a una nazione, a una comunità. Bourdieu parlava di habitus, di Wittgenstein di "forme di vita", di abitudini che diventano talmente plasmanti il nostro essere da agire sulla psiche e sul corpo. Essere italiani è una di queste, un "esercizio" che conduce ad una identità, un esercizio che richiede consuetudini, pratiche, luoghi e oggetti. Il nostro essere italiani è plasmato dai paesaggi che ci circondano, dagli oggetti che ci toccano e che tocchiamo, dalle pratiche quotidiane a cui non facciamo caso ma che ripetiamo perché in esse ci "ritroviamo". L’esercizio della propria identità è importante quanto l’esercizio della democrazia, qualcosa che se non viene esercitata perde il suo potere e il suo valore. In cosa si esercitano gli italiani? In piccole cose che gli sono proprie. È infatti l’esercizio della quotidianità che più rende diversi i popoli tra di loro. Come si svegliano? Come fanno colazione? Come si vestono per uscire? Come entrano al lavoro e come ne escono? Che tipo di priorità danno nella giornata alle cose da fare e alle persone da vedere? Che tipo di idea hanno del riposo, del divertimento, del sonno, della notte? C’è, senza dubbio, nell’essere italiani, qualcosa di inconfondibile se ancora il nostro paese attira dall’estero ondate di stranieri vogliosi di vivere "come noi". Quel magnifico andare al bar la mattina, quel dialogare divertito e rilassato con persone "quasi" sconosciute, il barista, il fruttivendolo, le persone che si incrociano, lo scherzo tipicamente italiano, la cura di molti dettagli e il rapporto con gli oggetti. Se c’è una storia del design in Italia che davvero conta è quella che ha a che fare con questa domesticità allargata che costituisce uno dei caratteri più forti del nostro Paese. Allargare la casa al bar, alla strada, alla città significa non pensare che ci sia una cesura netta tra privato e pubblico – con le conseguenze positive e negative di questo fatto. Gli italiani si servono dell’auto, della moto, della bici, del tavolo, delle sedie, dei cavatappi, delle lampade come se in casa o fuori ci fosse una dimensione del rapporto tra corpo e oggetti, tra corpo e luoghi che ha un carattere di intimità. Una delle cose che un italiano nota quando vive all’estero, in Francia, o negli Stati Uniti, è quanto questa dimensione sia rara altrove, quanto i corpi della gente per strada a New York o a Parigi siano corpi "pubblici", diversi da quelli che si incontrano in una casa. Come se il privato fosse la rilassatezza e il pubblico sempre la tensione. In Italia la dimensione della domesticità è talmente allargata che c’è uno stare a proprio "agio" che implica una capacità elastica e multifunzionale dei corpi. Sul marciapiede, in strada ci si riesce a barcamenare, a sfiorare gli altri senza urtarli, a sedersi accanto ad altri senza dover costruire barriere. È questa dimensione che crea oggetti e mobilia e pubblico decoro, che dà alle strade la loro dimensione e ai negozi il loro carattere.È la dimensione che gli italiani hanno inventato quando facevano le little italies nel mondo, questo mettere in mostra merci e verdure e soprattutto se stessi. Erwin Goffmann aveva rintracciato questa dimensione in certi quartieri ebraici, ma nessuno come lui ci ha aiutato, noi italiani, a  capire che la nostra domesticità è anche una messa in scena, che il palcoscenico delle pratiche quotidiane è per noi importante dentro casa e fuori. Il gusto che proviamo ancora a guardare una commedia di Edoardo de Filippo sta nel ritrovare questa dimensione  teatrale e allo stesso tempo domestica. Ci sono dei rumori, degli odori che l’accompagnano, dal rumore dei piatti che si sente dalla strada venire all’ora di pranzo dalle case, allo sfrigolio del soffritto nella tromba delle scale, al rumore del caffè che esce gorgogliando. Come se l’Italia fosse una maestra non di poesia, di letteratura, di arte, ma soprattutto una maestra di scenari quotidiani, di quella impressionante abilità di "darsi un senso" di punteggiare di pratiche, di piccole abitudini piacevoli la giornata. Come se l’Italia avesse capito – e poi dimenticato – che le cose che contano sono quelle che non sembrano accadere. Due antropologi svedesi, Billy Ehn e Orvar Lofgren hanno definito questa capacità «The secret world of doing nothing», il mondo segreto del non far niente, quello che si chiama anche in tutte le lingue del mondo "il dolce far niente" e che viene scritto in italiano in tutte le lingue del mondo. Ma che non è un far niente. In realtà si tratta di attese, tempi di passaggio, maniere di ammazzare il tempo, abitudini, maniere di parlare per intrattenersi, andare a zonzo, perder tempo. Potrebbe sembrare una lode della pigrizia ed invece è da questa dimensione che nasce la produttività del design italiano, la qualità di molte architetture, la maniera sapiente con cui il nostro shopping è diverso da quello di altri paesi. Insomma l’italianità è solo un’apparente presa in giro della fretta e della febbre del fare. In realtà si tratta di una maniera molto singolare di usare il tempo e di dimensionarlo alla scala del passante e del quotidiano. Ovviamente questa è l’italianità che ci è giunta , che è arrivata fino a noi. Adesso si tratta di capire se saremo capaci di inventarle un futuro, cosa molto più complicata nelle sfide che ci arrivano dalla mondializzazione e dagli incontri con altre culture. Ma se ha resistito fino ad ora è probabile che ci aiuti a guardarci intanto in faccia e a fare qualcosa che per gli italiani è molto difficile, "riconoscersi".
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