domenica 12 giugno 2011
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Domenica 26 giugno in piazza Duomo a Milano verrà beatificato padre Clemente Vismara, che nel 1983 – quando compiva sessant’anni di missione – la Conferenza episcopale birmana proclamò «Patriarca della Birmania». È il primo missionario del nostro tempo fatto beato, senza essere martire o vescovo o fondatore di un ordine religioso. I suoi confratelli nella diocesi di Kengtung dicevano: «Se fate beato Vismara, dovete beatificare anche noi che abbiamo fatto la sua stessa vita». Ma Clemente, pur essendo un missionario del tutto «ordinario», ha vissuto la sua vocazione incarnando «in modo eroico» le virtù tradizionali del missionario fra i non cristiani. Nato ad Agrate Brianza (Mb) nel 1897, aveva partecipato in trincea come fante alla Grande Guerra, alla fine della quale venne promosso sergente maggiore con una medaglia al valor militare. Nel frattempo però aveva capito che – come scriveva – «la vita ha valore solo se la si dona agli altri»; così scelse di diventare sacerdote e (siccome era troppo irrequieto per stare nel seminario diocesano...) membro del Pontificio Istituto Missioni Estere di Milano. Nel 1923 parte per la Birmania, dove il Pime stava evangelizzando vaste regioni e i suoi giovani missionari morivano come mosche. Padre Clemente è destinato a Kengtung, zona montuosa e forestale quasi inesplorata, abitata da tribali, ancora sottoposta a un re locale (sabwà). Ma non è finita: dopo i 14 giorni a cavallo per arrivare a Kengtung, il superiore in altri sei giorni a cavallo o a piedi lo trasferisce a Monglin, sua ultima destinazione ai confini tra Laos, Cina e Thailandia. Era l’ottobre 1924; in 32 anni Clemente Vismara fonda dal nulla tre parrocchie: Monglin, Mong Phyak e Kenglap. Il suo apostolato è elementare, consiste nel girare i villaggi e farsi conoscere portando medicine o facendo il dentista; l’ex sergente maggiore si adatta a vivere con popolazioni poverissime e annebbiate dall’uso dell’oppio, resiste al clima terribile per i bianchi, ai pericoli, al cibo misero a base di riso e salsa piccante, al massimo carne procurata in battute di caccia. Fin dall’inizio però porta a casa orfani e bambini abbandonati per educarli, anzi talvolta li «compera» dai genitori per pochi soldi, riscattandoli da un destino miserabile. Per questo fonda un orfanotrofio sempre affollatissimo: fino al termine della sua lunga vita abitò circondato da 200 o 250 orfani e orfane, tutti a suo completo carico! Si calcola che nella sua «carriera» abbia educato 10.000 piccoli birmani. Non per niente oggi è invocato come «protettore dei bambini» e fa molte grazie che riguardano i minori e le famiglie...Padre Clemente scrive molto, e scrive bene. Lettere e articoli, che le riviste missionarie gli pubblicano volentieri – e che gli fruttano offerte per mantenere la sua numerosa truppa. Sono testi avventurosi, ma anche profondamente umani e cristiani: «Qui è peggio che quando ero in trincea – scrive una volta –, ma questa guerra l’ho voluta io e debbo combatterla fino in fondo con l’aiuto di Dio. Sono sempre nelle mani di Dio». Tre Rosari al giorno e una forte esperienza di Dio spiegano il suo eroismo e l’inalterabile serenità e gioia di vivere. Ma intanto, a poco a poco, intorno a padre Clemente nasce una cristianità: fonda scuole e cappelle, officine e risaie, canali d’irrigazione, insegna la falegnameria e la meccanica, costruisce case in muratura e porta nuove coltivazioni, il frumento (il granoturco, il baco da seta, la verdura); vengono anche le suore di Maria Bambina italiane ad aiutarlo. Nasce la Chiesa in un angolo di mondo dove non ci sono turisti ma solo contrabbandieri d’oppio, stregoni e guerriglieri. Non solo: Clemente parla con tutti, anche i non cristiani, portando la pace fra i villaggi e le tribù, stabilizzando sul territorio le tribù nomadi che – attraverso la scuola e l’assistenza sanitaria, possono elevarsi e oggi hanno anch’esse medici e infermiere, artigiani e insegnanti, preti e suore, autorità civili e vescovi. A Kengtung, ben 5 preti e 14 suore si chiamano don Clemente e suor Clementina... Nel 1956, quando aveva ormai fondato la cittadella cristiana di Monglin e convertito una cinquantina di villaggi, il vescovo lo sposta a Mongping, a 230 km da lì; e ricomincia tranquillamente da zero, a sessant’anni. Scrive a un fratello: «Obbedisco al vescovo perché capisco che se faccio di testa mia sbaglio». Una nuova missione, la fondazione delle parrocchie di Mongping e Tongtà, altri cinquanta villaggi diventati cattolici. Padre Clemente muore il 15 giugno 1988 a Mongping ed è sepolto vicino alla chiesa e alla grotta di Lourdes da lui costruite. Oggi è il primo beato della Birmania! Ma perché proprio lui, tra l’altro con una causa di beatificazione rapidissima (in effetti, il futuro beato è solo uno dei circa 200 missionari del Pime che dal 1867 ad oggi hanno fondato sei delle 14 diocesi dell’attuale Myanmar, con circa 300.000 battezzati, la metà dei cattolici della Birmania)? Nel 1993 sono andato a Kengtung con due missionari che erano stati con Clemente in Birmania e l’abbiamo chiesto al vescovo, monsignor Abraham Than: «Perché vuole la beatificazione di padre Clemente?». Ha risposto: «Abbiamo avuto tanti santi missionari del Pime che hanno fondato la diocesi, compreso il primo vescovo monsignor Erminio Bonetta, il cui ricordo è ancora vivo. Ma per nessuno di essi si sono verificati questa devozione e questo movimento di popolo per dichiararli santi, come per padre Vismara».Quando l’ho intervistato in Birmania nel 1983, aveva 86 anni e conservava lo stesso entusiasmo di quand’era giovane: sereno e gioioso, generoso con tutti, un uomo di Dio pur nelle tragiche situazioni in cui è vissuto. Aveva una visione avventurosa e poetica della missione, che l’ha reso un personaggio affascinante attraverso i suoi scritti. La sua fiducia nella Provvidenza era proverbiale. Non faceva bilanci né preventivi, non contava mai i soldi («Li conta la Provvidenza e me ne manda altri»). In un Paese in cui la maggioranza della gente in alcuni mesi dell’anno soffre la fame, Clemente dava da mangiare a tutti. I confratelli e le suore lo rimproveravano di prendere troppi bambini, vecchi, lebbrosi, handicappati, vedove. Clemente replicava: «Oggi abbiamo mangiato tutti, domani il Signore provvederà». E le serate le spendeva scrivendo al lume di candela (negli ultimi anni due candele...) lettere e articoli – ne ho raccolti rispettivamente 2300 e 700. I suoi testi – poetici, avventurosi, infiammati d’amore per i più poveri – hanno suscitato numerose vocazioni, e non solo in Italia.
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