mercoledì 8 giugno 2016
 Virzì e Giovannesi, quando il cinema accarezza l'anima
COMMENTA E CONDIVIDI
Ci sono due film che si aggirano “minacciosi” di buoni sentimenti per le nostre sale. Due pellicole italiane, di un’intensità incredibile e che meritano un’attenzione collettiva, se possibile famigliare. Si tratta de La pazza gioia , ultimo capolavoro dell’ultimo figlio della commedia all’italiana, Paolo Virzì, e Fiore del talentuoso Claudio Giovannesi. Due storie unite da quei sentimenti che crocifiggono l’umanità, tutta: il dolore atroce – fisico e spirituale –, la lotta impari contro il male, la solitudine degli ultimi (sempre di più rispetto ai pochi privilegiati), la perdita della libertà. Non sono categorie kantiane, ma le scorie di un quotidiano veloce, rarefatto, “liquidissimo” e che troppo spesso genera malattia. Quella mentale di Beatrice ( Valeria Bruni Tedeschi) e Donatella (Micaela Ramazzotti) in La pazza gioia. Due donne disperate, inascoltate, tradite persino dalle loro stesse famiglie, dove però continuano a rifugiarsi. La snob e prodiga Beatrice vittima del berlusconismo edonistico e stalker impenitente di ex amanti e giudici che l’hanno condannata alla comunità terapeutica, trova riparo nella dependance della villa nobiliare del suo casato, dove però papà e mamma (nobiltà decaduta da Grande bellezza di Sorrentino) cinicamente si augurano che «muoia presto». Perché nel XXI secolo il malato mentale è ancora un peso sociale e una vergogna per la famiglia che tende ad isolarlo, lo emargina. E quando non ce la fa più a risolverlo allora rimuove il problema. Donatella è figlia di un universo cubista discotecaro, di una galassia social in cui però lei (come molte donne) si sente profondamente asociale. Vorrebbe semplicemente vivere una vita normale, sentirsi madre di un figlio strappatogli dai servizi sociali per via della sua malattia e dato in adozione a una famiglia che però non gli nega l’ultimo anonimo abbraccio. Ognuno difende quel pizzico di felicità per cui ha vissuto e lottato con i denti fin dall’infanzia. Daphne di Fiore (recita come una “piccola” Anna Magnani questa Daphne Scoccia che è subito tornata a fare la cameriera alla fine delle riprese del film) conosce solo la legge della strada e per sopravvivere ruba ai viaggiatori della metropolitana. Non ha una casa, dorme alla stazione come un clochard e la galera alla fine diventa il suo tetto. Dietro le sbarre, l’unico posto che gli è familiare, è venuta su andando a trovare quel padre, Ascanio ( Valerio Mastrandrea) che gli ricambia le visite al carcere minorile in cui viene reclusa, ma anche l’amore sincero di uomo che dagli arresti domiciliari prova a rifarsi una vita con una donna e una madre straniera. Daphne si tatua il nome del padre con uno spillo rimediato nella sartoria del carcere e impara ad amare un altro uomo, il giovane Josh (Josciua Algeri, attore e rapper che ha vissuto davvero l’esperienza del carcere minorile) scambiandosi lettere dalle loro prigioni. È l’amore degli ultimi che si riconoscono ad occhi chiusi dall’odore della miseria e dei vestiti sudati per le fughe dalla polizia e le rincorse affannose alla ricerca di un po’ di pace davanti al mare. Tutti i protagonisti, sfiniti, un po’ felici e fortemente confusi, si ritrovano davanti quella che solo a noi spettatori appare come la loro ultima spiaggia. Mentre all’orizzonte c’è sempre la speranza che domani cambierà, e che magari andrà meglio. Non sapremo mai se Daphne e Josh, dal mancato rientro nei rispettivi istituti detentivi, poi arriveranno sulla spiaggia di Rimini, così come non si sa se Beatrice e Donatella un giorno guariranno liberandosi dei démoni che le hanno rese prigioniere. «La vita è tutto un equilibrio sopra la follia...», canta il poeta pop Vasco Rossi. È un verso di Sally , la canzone che dal suo provvidenziale mp3 fa stare meglio l’irrequieta Daphne. La canzone di Donatella invece è sempre stata Senza fine, convinta che a scriverla fosse stato suo padre Floriano (Marco Messeri) invece di Gino Paoli. Illusione che, il padre – un povero musicista in canna da piano bar – tornato al capezzale della figlia malata che invoca l’elettrochoc, non le toglierà. Le illusioni perdute sono quelle che giorno dopo giorno generano mostri, che ammalano, e spesso uccidono. Virzì e Giovannesi ci raccontano di tanti piccoli suicidi quotidiani che non si consumano solo grazie all’impegno provvidenziale di operatori (non tutti professionali e non sempre dotati della giusta sensibilità) di istituzioni che funzionano o potrebbero funzionare meglio, di progetti di inclusione e reinserimento sociale che quando vengono realizzati a dovere consentono un ritorno all’agognata normalità. Condizione quest’ultima che si fa sempre più fatica a riconoscere, forse fino a quando non si arriva ad ascoltare il rumore del mare che si confonde con quello della nostra anima, finalmente salva.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: