martedì 20 ottobre 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
«Io credo che il tema del perdono andrebbe messo al centro della società di oggi, all’attenzione del mondo intero. Questa è la vera soluzione dei nostri problemi, il modo per evitare le catastrofi che continuano a travolgere l’umanità. Per non dire di quello che può accadere in ogni singolo individuo, in ogni famiglia, se curasse nel cuore il rovello del rancore, il desiderio di fare del male a chi gliene ha fatto». L’attrice e regista Pamela Villoresi, volto consueto dei nostri palcoscenici e con una lunga filmografia all’attivo, con registi come i fratelli Taviani, Scola, Bellocchio, Sorrentino, Strehler affronta il tema con la serenità e il piglio deciso della donna che ha sperimentato sulla sua pelle la forza del perdono, ma anche i danni che certamente giungono da ogni tipo di scelta contraria.«La vendetta è sempre inadeguata e disastrosa», afferma. E per rafforzare il concetto cita a memoria un’espressione del poeta Mario Luzi relativa alla strage nazista di Sant’Anna di Stazzema: «Erano uomini sia le vittime che i carnefici. Dobbiamo accettare che nell’animo umano si annidi un così alto potenziale di distruzione. Ma ogni vendetta appare sempre inadeguata e profana. A riscattarci è semmai il valore delle nostre azioni, del nostro lavoro, della nostra umanità». Molti non credono all’utilità del perdono. «Forse anche perché non hanno compreso che il rancore fa male soprattutto a chi lo prova. Le persone che ragionano in termini di vendetta non sono mai felici». E quando si riceve del male, magari senza colpa? «L’unica strada è cominciare a prenderne coscienza. Ma il nostro pensiero può dare risposte adeguate solo se è ben nutrito. In questo senso le Sacre Scritture sono il nutrimento migliore. Ma la Parola non cambia la vita d’incanto. Deve essere letta, meditata, digerita... E poi cominciare a pregare per l’altro, per chi ti ha fatto del male. Questo serve anche a dare nutrimento dentro, a preservarci dallo scivolare sul ghiaccio del rancore. Poi. Di lì al perdono c’è ancora tanta strada da fare». Il rancore è il tema di tante tragedie greche... «Proprio da queste tragedie possono venire lezioni importanti. Medea abbandonata dal marito uccide anche i suoi figli. In questo modo centuplica il danno ricevuto. Quando si ascolta la tentazione del rancore i pensieri che ci vengono sono sempre sbagliati e non aiutano mai a risolvere il problema. Per questo motivo quando mi trovo in simili situazioni cerco subito di ripulirmi da ogni tipo di atteggiamento rancoroso e questo aiuta a trovare le soluzioni per arginare il danno ricevuto». E il perdono? «Il perdono, ripeto, è un passo successivo. È il completamento del percorso: una cosa molto seria. Però ho scoperto che basta avviarsi su questa strada per modificare lo sguardo sul mondo. E sicuramente il mondo sarebbe molto diverso se la gran parte delle persone iniziasse questo cammino». Che parte ha Dio in tutto questo? «Dare le risposte giuste a quello che ci accade dipende molto dalla cura che abbiamo dello spirito. Dalla nostra relazione col divino. E poi, riguardo al perdono, Dio lo interpelliamo anche nel Padre nostro: 'Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo...'. Chiediamo a Dio di perdonarci nella misura in cui noi stessi siamo capaci di farlo». Certo, se davvero venissimo giudicati con lo stesso metro... «Saremmo davvero messi male. Ma ciò che cambia ogni prospettiva è il mettersi in cammino sulla strada del perdono. Questo mettersi in cammino credo sia davvero la parola, il 'gesto magico' per un mondo migliore». In questo contesto come si inserisce la confessione? «La confessione è un’altra cosa. Presuppone l’essere credenti. Ma anche dal punto di vista laico ha molto da insegnare. Se uno non si rende conto delle cose che fa, se non si rende conto di ciò che è male, non può progredire. La confessione obbliga a un confronto con noi stessi e questo ci aiuta a guardare in faccia la realtà con maggiore obiettività». La confessione è un’occasione per avviarsi con più lena sul cammino che diceva? «È una grande occasione, ma solo se si va alla confessione con animo aperto, in piena sincerità. Molto spesso, invece, facciamo come dal medico». In che senso? «Un mio amico qualche tempo fa mi raccontava di essere andato per anni dallo psicanalista ma, diceva, 'lo fregavo raccontandogli quello che mi faceva comodo'. Ma allora cosa ci andava a fare? Ecco, la confessione deve essere una presa di coscienza e un confronto aperto, altrimenti a cosa serve?». In certi casi c’è anche la difficoltà a perdonare se stessi. «Perdonare se stessi è difficile. A volte si è più generosi con gli altri che con se stessi. La pacificazione della fede è però di grande aiuto». Tornando alla confessione. Per aprirsi bisogna avere fiducia? «Sì. E non è facile trovare un buon confessore di fronte al quale avere un confronto aperto. Spesso la confessione è uno strumento messo in mano a persone che non aiutano, che non fanno sentire accolti, che non danno fiducia, che alzano muri invalicabili». Su certe cose il confessore non può transigere... «Ma può essere più aperto, può aiutare... Temo che la Chiesa in questo sia un po’ lontana dal mondo reale. Serve un nuovo rapporto di fiducia con le persone, con i fedeli. Serve una nuova apertura... Io, per esempio non posso fare a meno di annotare lo scarso valore che si dà alle donne. Si parla tanto di carismi da valorizzare, ma non mi sembra che su questa strada si esaltino i carismi delle donne. E le donne sono un po’ stufe di vedersi assegnate ruoli di così scarsa responsabilità e rilevanza nella Chiesa».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: