venerdì 6 maggio 2016
L’Azeglio, l’ultimo selezionatore azzurro cresciuto a Coverciano: nella biografia scritta in famiglia il ritratto di un uomo verticale, il cui comandamento è: «Le regole sono regole».
Il calcio di Vicini è sempre verde
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Viva l’Italia, quella del pallone. L’Italia mai presa a tradimento da “uomini verticali”, selezionatori di altri uomini di campo. Allora, viva l’Italia di Azeglio Vicini, romagnolo della “zolla” di Cesenatico, nato da famiglia contadina nella Cascina Rossa di San Vittore, il 20 marzo 1933. Fine mezzala, debutto in Serie A a vent’anni nel Lanerossi Vicenza e figurina Panini sbagliata: «Scrissero Azelio, senza la “g”». Quell’omaggio paterno, e un po’ bizzarro, al marchese Massimo D’Azeglio lo pagò con l’errore all’anagrafe e poi nell’album. Forse l’unica sbavatura («poi corretta») nella biografia di un galantuomo (l’11 maggio la presentazione a Vicenza), in campo e fuori, raccontata dal suo terzogenito, l’avvocato giornalista Gianluca (gli altri figli sono Manlio e Ofelia detta “Lia”) e dalla moglie del ct, Ines Crosara. Ines, la compagna di una vita, dal 1955, la “Commissaria” di casa Vicini e anche la prima collaboratrice tecnica. «Nei pomeriggi di sole li trovo lì, sul balcone della casa che si affaccia sul mare di Cesenatico... Papà intento a curare i gerani e gli oleandri, mamma rimane seduta al tavolino impegnata a riassumergli i quotidiani sportivi in una sorta di rassegna stampa personalizzata», scrive Gianluca, nato una domenica del 1967 con il campionato fermo, ma papà Azeglio, allora allenatore del Brescia, era in trasferta per un’amichevole in Svizzera. «Ines era in ospedale da sola... Me lo rinfaccia ancora».

Fu l’unico colpo di testa del suo ’68, anno in cui Vicini entrò in Casa Italia come collaboratore del ct Ferruccio Valcareggi e responsabile della Nazionale Under 23. «In Federazione avrei dovuto restare due anni, ci sono rimasto fino al 1991». In prefazione, Giorgio Martino ricorda l’epilogo di Mosca: «Il 12 ottobre 1991 il tiro di Rizzitelli si infrange sul palo della porta di Cherchesov chiudendo in quell’attimo la qualificazione agli Europei e il ciclo della sua panchina azzurra ». Un ciclo straordinario, come straordinaria era la scuola e lo stile federale impresso da Artemio Franchi. «Nel 1966, dopo la Corea, la nuova politica della Figc era di costruire una struttura destinata a durare nel tempo ed incentrata sulla Nazionale maggiore, con cui gli allenatori delle giovanili collaboravano acquisendo quell’esperienza necessaria per poter diventare un giorno i nuovi ct», ricorda.

Questa era la linea azzurra iniziata dal tenente degli alpini Vittorio Pozzo, ripresa dal “Vecio” Enzo Bearzot e giunta al “Grande Ufficiale” della Repubblica, anche del pallone, Azeglio Vicini che l’ha tra- smessa - “via club” - ad Arrigo Sacchi che a sua volta la riconsegnò al selezionatore doc Cesare Maldini, appena scomparso. Vicini ha fatto di Coverciano la sua seconda casa, «una grande famiglia: dagli amici medici ad Alvaro il magazziniere e a Sandro il massaggiatore, da Mario il cameriere, al cuoco che mi viziava, alla guardarobiera, signora Angiolina ».

Azeglio l’amico gentile delle “basse forze”, fratello maggiore dei giocatori, «quando sono entrato ero un ragazzo come loro», e poi papà di «quelli della mia ultima Under 21: Zenga,Vialli, Mancini, Donadoni...». È lunghissima la lista dei campioni svezzati dal talent scout federale e poi dal ct a tempo pieno, che dei tanti nomi ne ricorda uno in particolare: «Stagione 1971-1972. Avevo notato un ragazzo del 1954, alto dai capelli lunghi che si muoveva con eleganza. Veniva dall’Asti Ma.Co.Bi in Piemonte, in quarta serie». Quel ragazzo era Giancarlo Antognoni, campione del mondo a Spagna ’82: «Durante qualche serata estiva Giancarlo racconta ancora di questo passaggio, “salto” come dice lui, dalla quarta serie all’Under 21 e alla Nazionale maggiore. Mi ringrazia ancora. Penso che dovrei ringraziarlo anch’io».

Riconoscente, sincero come un bicchiere del vino che gli regala l’eterno amico e compagno di squadra Edo Lelli, Vicini ha vissuto sei Mondiali a bordo campo e amato il gioco dei puri: «Domenghini e Facchetti, talenti che adesso sono rari nel nostro calcio», e poi «Gigi Riva: il più forte giocatore italiano che ho visto in oltre sessant’anni di carriera». Il rimpianto? «Se alla mia Nazionale avessi potuto aggiungere Riva e Marco Tardelli non ci avrebbero battuto neanche i marziani». E invece quella Nazionale, che nel 1986 ereditò da Bearzot e che aveva costruito attingendo al serbatoio del «sesto ciclo, di due anni ciascuno» della sua Under 21, perse un Mondiale in casa, da imbattuta. Italia ’90, «notti magiche / inseguendo un gol», cantavano in tandem Edoardo Bennato e Gianna Nannini. E dalla Caldogno dell’astro in ascesa Roby Baggio fino alla Palermo del bomber Totò Schillaci, un solo coro a sospingere gli azzurri verso la vittoria. Ma fatale, per l’Italia e la storia dell’Azeglio, fu la semifinale contro l’Argentina di Diego Armando Maradona. «Se l’avessimo giocata all’Olimpico non avremmo mai perso», va ripetendo il ct da quella notte (3 luglio 1990) per niente magica. L’Italia fino a quel momento aveva fatto un percorso netto, cinque vittorie su cinque e Walter Zenga non aveva subito neppure una rete. L’uscita a vuoto dell’“Uomo Ragno” regalò il pareggio all’Argentina: inzuccata delle bionde trecce di Caniggia.

Poi la lotteria dei rigori e, in un San Paolo surreale che faceva il tifo per il suo re, “Eupalla” Maradona, gli errori dal dischetto di Donadoni e Serena costarono la finale e forse quel quarto titolo (vinto poi nel 2006 a Berlino) quasi annunciato. Un Paese intero ha pianto quella notte e il giorno dopo ad asciugare le lacrime dei ragazzi diVicini fu l’Avvocato Agnelli, atterrato con il suo elicottero al campo base azzurro di Marino per complimentarsi con la squadra e il suo condottiero. «Ci diede la carica per vincere contro l’Inghilterra e conquistare il terzo posto», racconta Vicini. Sesta vittoria, sesto gol di Schillaci (capocannoniere del torneo) e medaglia di bronzo Il ct Azeglio Vicini, classe 1933 in una immagine di repertorio: una seduta di allenamento della Nazionale che guidò ai Mondiali di calcio di Italia ’90 piazzandosi al terzo posto La medaglia di bronzo il ct l’ha poi donata al Museo del calcio di Coverciano (che il ct ha donato al Museo del calcio di Coverciano).

«Ma quello era un gruppo d’oro per l’attaccamento speciale alla maglia azzurra». A cominciare da Roberto Mancini, che infortunato con la Sampdoria non venne convocato ma la domenica sera si presentò lo stesso nel ritiro della Nazionale: «Mi disse che stava bene e che era disponibile. È stato l’unico caso di convocazione postuma». Per lo stesso Mancini, nel 2001 Vicini si dimise da presidente dell’Aiac (l’Assoallenatori) perché la Fiorentina aveva assunto l’ex doriano come allenatore nonostante l’anno prima era tesserato nello staff tecnico della Lazio e non fosse abilitato come tecnico di prima categoria. «Mi è dispiaciuto perché erano coinvolti Petrucci e Mancini, cui ero legato dai tempi della Nazionale, ma le regole sono regole». Ecco, in questo “comandamento” sta tutto il credo dell’uomo di calcio Vicini, c’è la lezione di vita del nonno di Roberta, Alessandro e Azeglio Francesco, che si schernisce: «Ormai nella mia carta d’identità sta scritto pensionato... Ma una passione in pensione non va mai».

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